Alla
Corte Suprema di Londra si torna a discutere di
fine vita. Questa volta, no, il procedimento non riguarda bambini gravemente malati o disabili per i quali l’ospedale, contro la volontà dei genitori, chiede la sospensione delle cure. Ma il diritto delle famiglie che hanno già vissuto odissee simili a raccontare la loro storia senza omissioni. I parenti dei piccoli
Isaiah Haastrup e Zainab Abbasi, morti rispettivamente nel 2018 e nel 2019, il primo a 12 mesi, il secondo a sei anni, contestano un ordine perpetuo dell’Alta Corte che gli impone di non divulgare mai, in nessuna circostanza, il nome dei medici che hanno (invano) sfidato in tribunale. Le udienze tenute la scorsa settimana dinanzi a cinque giudici supremi sono l’esito del ricorso con cui le strutture sanitarie tirate in causa dai loro genitori, il Newcastle Upon Tyne Hospital e il King’s College Hospital, cercano di ribaltare la sentenza di appello che, l’anno scorso, ha annullato le restrizioni della corte di primo grado riconoscendogli il diritto a raccontare per intero le proprie vicissitudini. Prerogativa basata sulla
libertà di espressione che, questa era la conclusione, supera il
diritto alla privacy invocato dagli operatori sanitari. In aula, al fianco dei genitori di Isaiah e Zainab, supportati dal
Christian Legal Centre e dalla Free Speech Union, si sono presentati anche i familiari di altri minori, come
Indi Gregory e
Archie Battersbee, che si sono battuti in tribunale per opporsi, seppure senza successo, allo spegnimento delle macchine che tenevano in vita i loro bambini. Il pronunciamento della Corte Suprema arriverà nelle prossime settimane al termine di consultazioni con associazioni di categoria come la
British Medical Association e il Royal College of Nursing. “Abbiamo perso nostra figlia – hanno dichiarato Rashid e Aliya Abbasi – adesso vorremmo solo raccontare la verità”.