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Il dramma. Salviamo Cristina rapita in Iraq dal'Is

Luca Geronico lunedì 8 giugno 2015
«Abbiamo raccolto il grido di una mamma», il grido per Cristina. Così padre Enzo Fortunato, direttore della sala stampa del Sacro Convento di Assisi, con semplicità tutta francescana spiega l’origine dell’iniziativa “#savecristina”.Una visita ad Erbil dal 22 al 25 aprile, alla guida di una piccola delegazione formata da altri due giovani, rispondendo alle sollecitazioni della Segreteria di Stato e di Cor Unum. Ogni anno, da 13 anni ormai, i frati del Sacro Convento cercano fra le situazioni «più drammatiche e dimenticate» dove poter «portare aiuto e speranza». È la diretta radiotelevisiva Rai di sabato prossimo che, dal sagrato della basilica di San Francesco, un’altra volta chiederà – come recita il titolo della serata benefica – “Con il cuore, nel nome di Francesco”.Decisivo per padre Fortunato e compagni, nei mille container appena inaugurati dell’«Ashti camp», il campo profughi la “Pace”, l’incontro con Aida. Con il marito Khidir, ex usciere del tribunale di Qaraqosh, anche lei è ospite della struttura: il marito è cieco. Per questo, con la piccola di tre anni, non sono fuggiti subito – come quasi tutti gli altri cristiani della cittadina alla porte di Mosul – la notte del 6 agosto scorso. Adesso, a chiunque li visita, Aida e Khidir mostrano quella foto incorniciata della bimba, strappata dalle braccia di Aida pochi minuti prima di salire sull’autobus che li ha fatti uscire dalla cittadina finita nelle mani dello Stato islamico.«San Francesco – racconta padre Enzo – considerava ogni mamma come la mamma di tutti noi frati. Per questo abbiamo sentito subito un rapporto filiale e quel grido è entrato nella nostra carne, nelle nostre preghiere, nella nostra umanità e rimbomba ogni giorno». Uno strazio che scava il volto dei due genitori. Il padre Khidir, a inizio aprile ad Avvenire, aveva raccontato di aver pure pagato, tramite un intermediario, un riscatto di due milioni di dinari. «Non è servito a nulla». Secondo le informazioni raccolte dal padre la bimba, del cui caso si sono interessate pure agenzie umanitarie internazionali per raccogliere prove sui crimini di guerra perpetrati dallo Stato islamico, sarebbe in mano «di un certo Abu Niswah». Decine di colloqui avuti con operatoti umanitari e pure con un legale, riferiva l’uomo molto provato. Tutto senza esito per Cristina.La «ferocia» dell’Is ha dell’incredibile, «atti di barbarie che – prosegue padre Fortunato – ci scuotono e ci spingono a compire passi che vanno nella direzione opposta». Scontata le destinazione di gran parte dei fondi che si raccoglieranno quest’anno: d’accordo con l’arcivescovo caldeo Bashar Warda, 500mila euro serviranno a costruire un piccolo ospedale (35 posti letto) con un reparto di maternità e una pediatria. Aiuto materiale ma anche, attraverso i media, una mobilitazione dell’opinione pubblica. «Nel nome di San Francesco ci rivolgiamo agli uomini dello Stato islamico: rilasciate quella bimba, rilasciate Cristina». Un appello che i frati di San Francesco rilanciano a tutti, con la possibilità di unirsi sui social network attraverso l’hastag “#savecristina”. «Quello che viviamo nella preghiera, sulla tomba di San Francesco diventa esortazione sui mezzi di informazione. Un appello, spiega padre Enzo Fortunato, «perché il cuore di questi uomini venga scosso dal grido dell’umano. Perché, usando il motto del cardinale John Henry Newman, “cor ad cor loquitur”. Il nostro cuore desidera parlare al cuore degli uomini dell’Is». Dal Sacro Convento un invito a compiere un gesto semplice – come inviare un sms solidale al numero 45505 o scrivere una frase su un social network– ma carico di significato, come spiega il padre guardiano Mauro Gambetti: «L’evento è una occasione per portare le periferie al centro, al centro del cuore, includendo i più deboli, i perseguitati, gli affamati», spiega il padre guardiano. L’ultima fra padre Enzo Fortunato la vuole lasciare a una citazione di Jorge Bergoglio, il primo Papa con il nome del poverello di Assisi: «La solidarietà non è un atteggiamento in più, non è un’elemosina sociale, ma è un valore sociale. E ci chiede la sua cittadinanza».