Mondo

L'analisi. Il caos della Cop29: «Non c'è azione per il clima dove non c'è pace»

Lucia Capuzzi sabato 23 novembre 2024

Gli attivisti hanno organizzato varie proteste per premere sui Paesi ricchi a impegni forti per aiutare il Sud del mondo

Il convulso finale della Cop29 lascia con l'amaro in bocca gran parte dei Paesi - a cominciare dai più poveri - e la società civile. La legittima frustrazione è segno drammaticamente eloquente di una questione più ampia. Ne è convinto Jacopo Bencini, presidente dell'Italian climate network (Icn). «Mancano gli strumenti. I bilanci degli Stati da soli non bastano per far fronte all’emergenza, mentre contemporaneamente dobbiamo decarbonizzare il più velocemente possibile i nostri sistemi produttivi. Con la pandemia e Next Generation Europe abbiamo visto che strumenti condivisi di debito, investimento e mobilitazione possono smuovere grandi risorse, ma guardando ai cambiamenti climatici il problema, nel frattempo, è diventato semplicemente troppo grande per le soluzioni che abbiamo usato e pensato fino ad oggi. Con il continuo crescere, ogni anno, delle nostre responsabilità emissive in un ciclo vizioso che si auto rafforza. Che ci spinge, ogni anno di più, a chiedere non più un cambio di politiche, ma di sistema. Perché a ben vedere i soldi ci sarebbero».

La 29esima Conferenza Onu sul clima si è svolta in una temperie geopolitica tragica. Le linee di faglia si moltiplicano e si approfondiscono fino a diventare fratture insanabili. Il vertice, tra l'altro, è il terzo in una nazione formalmente in conflitto dopo le due Cop in Marocco del 2001 e 2016. L’Azerbaigian non ha ancora firmato, un trattato di pace con la vicina Armenia dopo la sanguinosa presa del Nagorno Karabakh avvenuta poco più di anno fa. Per questo, la delegazione di Erevan non c'era nonostante il logo delle Nazioni Unite all’entrata. Per la prima volta, poi, era assente la delegazione ministeriale francese, a causa delle scintille tra Parigi e il presidente-anfitrione Ilham Aliyev.

«Pessimi segnali per il sistema multilaterale, pensato per mettere a sedere tutti i Paesi intorno al tavolo delle soluzioni. Dei compromessi, degli accordi. Ma insieme - sottolinea Bencini -, Mentre i delegati negoziavano i testi sulla finanza per il clima, mitigazione e mercati del carbonio, in Europa cadeva il primo missile balistico ipersonico mai usato in un conflitto armato. Non era un’esercitazione. Per due leader fino a pochi anni fa parti a pieno titolo della comunità internazionale, Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, sono stati emessi mandati di arresto internazionali per crimini di guerra. A Gaza, in Libano, in Sudan si muore ogni giorno. Mai, dalla caduta del Muro di Berlino, il mondo era stato così violento, così diviso».

Eppure la comunità internazionale non pare consapevole della minaccia. Proprio come per quanto riguarda il riscaldamento globale. «In entrambi i casi - guerra e clima - sembriamo sopraffatti da una dinamica di rimozione del trauma, di negazione. Il nostro cervello non è programmato per provare paura o reagire a fronte di minacce che non vede, non tocca, astratte - aggiunge il presidente dell'Icn -. Ora che queste minacce le vediamo e tocchiamo anche da vicino, a Bologna, a Valencia, ora che missili ipersonici solcano i cieli europei, si trova due strade: costruire o abbandonarci all’ansia, quindi alla negazione. Impegnarsi o preservarsi, nell’inverso logico per cui è proprio dall’impegno, concetto antico e da preservare, che passa la salvezza, singolare e collettiva». Il punto di partenza è una centrale presa d'atto. «Non c’è azione per il clima dove non c’è pace. Prima di tutto deve essere posto un termine immediato ai conflitti armati in corso, riaperti i canali diplomatici a tutti i livelli. Dove si combatte non ci sono politiche, non ci sono investimenti, non c’è la serenità sociale necessaria alla sperimentazione, all’innovazione, non c’è lavoro sul futuro, non ci sono conferenze sincere. La guerra, inoltre, ruba soldi alla salvezza del pianeta: nel 2023 i Paesi del mondo hanno speso in armamenti otto volte la cifra sulla quale oggi si sono accordati di spendere ogni anno per il clima. Possiamo lavorare su questi numeri, credo. Come potremmo lavorare di più, come società civile, sul rendere pubblici i dati sugli enormi e sconvolgenti danni che la guerra causa all’ambiente oltre che alle popolazioni, con conseguenze spesso irrecuperabili».

In un contesto in cui il multilateralismo è stretto nella morsa di nazionalismi aggressivi e populismi ambigui, la Cop, con tutti i limiti, rappresenta comunque l'unico processo di dialogo concreto. Tutelarlo è, dunque, fondamentale. «

Da oggi fino al prossimo vertice in Brasile, finalmente di nuovo aperto ad una vera partecipazione della società civile globale, dei popoli indigeni, delle vittime dell’assenza di politiche, dobbiamo costruire senza abbandonarci alla dinamica della negazione

- conclude l'esperto -. È un viaggio che richiede impegno, ma quando due di noi alzano la testa si vedono, si riconoscono e capiscono che non sono soli. Che non siamo soli».