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L’offensiva del terrore. Baghdad, i figli dei kamikaze condannati all’«invisibilità»

Francesca Bertoldi domenica 26 settembre 2010
Nati da violenze. E costretti a una vita da invisibili, senza diritti, senza protezione. Sono i figli dei kamikaze di al-Qaeda in Iraq, frutto dell’unione «forzata» tra un’irachena e un attentatore suicida «arabo». Violenze consumate dai kamikaze prima di andare incontro alla morte. Come nel caso di Hadifa, meno di due anni. Il bimbo non è riconosciuto dall’Iraq né dal Paese di provenienza del terrorista, mentre la madre, espulsa dalla famiglia e dalla società, sopravvive grazie al sostegno di un’Organizzazione non governativa locale. Le associazioni irachene di difesa dei diritti umani denunciano che nella sola provincia orientale di Diyala, con capitale Baquba, si registrano almeno 54 casi di bambini «illegittimi» perché nati da «unioni forzate» tra donne del posto e «arabi stranieri penetrati illegalmente in Iraq per compiere attentati suicidi». Saadiye Salim poco più di due anni fa «è stata costretta a sposare Said Muhammad, tunisino, incaricato di compiere un attentato con un’autobomba nel centro di Baaquba». Ha concepito Hadifa. «Soffro pene indicibili e ho paura per mio figlio – racconta Saadiye al quotidiano panarabo al Hayat –. La mia famiglia non mi riconosce, così come non riconosce il mio piccolo, nonostante sappiano che sono stata costretta a unirmi a uno straniero terrorista». Analoga è la storia di Siham Nazim. «Mio figlio – racconta – per le autorità locali non esiste, né può ottenere la cittadinanza perché il matrimonio tra me e l’ex capo locale di al-Qaeda non è riconosciuto. Quegli uomini ci hanno sposate senza lasciarci alcuna prova legale di questa unione». Suad, una delle responsabili dell’associazione al Rahma (Pietà), afferma che «molte famiglie le cui figlie sono state costrette a sposarsi con i kamikaze, hanno registrato i figli di queste unioni col nome della famiglia d’origine della donna, di fatto facendo figurare il piccolo come fratello minore della sua stessa madre. Queste donne vivono in condizioni economiche e sociali disperate e il Parlamento deve varare quanto prima una legge speciale» aggiunge Suad.Fallah Jabburi, avvocato di un’altra Ong di Baquba, si rivolge invece alle autorità religiose perchè «emettano delle fatwa che consentano alle famiglie e alla società di riconoscere questi figli e di non emarginare le madri». Secondo lo shaykh Nasser al Haddhal, capo dell’influente tribù di Diyala, «molti kamikaze costringevano le donne locali a unirsi a loro poco prima di compiere gli attentati, solo per assolvere a quel che loro consideravano un precetto religioso. Ma al-Qaeda segue pratiche che non hanno nulla a che vedere con la legge islamica».