Controversi, guardati con sospetto oppure invocati e celebrati come eroi. Il destino dei Caschi bianchi, i volontari siriani, chiamati così per il copricapo di protezione indossato, è comunque quello di non lasciare indifferenti. La loro presenza, che li si consideri vicini ai ribelli filo-qaedisti di Jabhat al-Nusra e finanziati da potenze straniere, come sostengono i detrattori, oppure del tutto neutrali nel loro agire, come invece asseriscono quelli che li vorrebbero insigniti del Premio Nobel per la Pace, non può essere nascosta: troppe le immagini, i video, le testimonianze incrociate che attestano il loro intervento in mezzo alle macerie per cercare di salvare i sopravvissuti all’ennesima pioggia di fuoco, di provenienza governativa o ribelle. Al recupero di cittadini segue poi la corsa verso uno dei pochi ospedali o ambulatori rimasti in funzione. Come, fino alla scorsa settimana, l’ospedale al-Quds di Aleppo: i Caschi bianchi ( White helmets) lavoravano con quella struttura in cui esercitava l’ultimo pediatra della città. Poi, aerei definiti «sconosciuti» vi hanno seminato la morte. Lo stesso è accaduto per l’ospedale al-Dbait, sempre ad Aleppo, colpito ieri da razzi ribelli, secondo l’agenzia nazionale
Sana. Oggi, riferiscono i vertici dell’organizzazione – sul casco è riportata la scritta Protezione civile –, i Caschi bianchi di Aleppo sono circa 130, mentre sull’intero territorio siriano sono 2.900. Aleppo, città che attende il cessate il fuoco negoziato da Stati Uniti e Russia, rappresenta una sfida per qualsiasi forma di Protezione civile: dopo quattro anni di bombardamenti, individuare strutture intatte e stabili è impossibile. I volontari che hanno perso la vita in quel contesto sono 120, ma il saldo, in termini di vite umane salvate, è più che positivo: 40mila persone estratte in vita (numeri dei “White helmets”). Ora il lato politico della vicenda, se si può parlare di progettualità politica in uno scenario aberrante come quello siriano: fonti critiche sostengono che il nucleo della sedicente Protezione civile siriana – quella originaria è stata dissolta allo scoppiare dei primi scontri, cinque anni fa – sia frutto di una «iniezione» statunitense di soldi, logistica, risorse umane. Il tutto per sostenere ancora più da vicino i ribelli islamisti qaedisti. Per chi ha seguito il conflitto siriano, non c’è niente di più probabile di una spinta americana a qualsiasi forma di opposizione a Damasco. Inoltre, risulta difficile pensare che personale medico e volontari che vivono e lavorano nelle zone conquistate dai ribelli “salutino con favore” le bombe quotidiane di Damasco e Mosca. Vivere la guerra ogni giorno per anni cambia le prospettive geopolitiche e la percezione di bene e male, cristallina quando se ne discetta a migliaia di chilometri di distanza. Intanto, se i Caschi bianchi sono «l’ennesima creatura della Casa Bianca », si registra la loro caduta in disgrazia: il numero uno Raed Saleh, atteso a Washington lo scorso 19 aprile per ricevere il Premio per l’impegno umanitario di InterAction, si è visto negare l’ingresso negli Usa la sera del 18 aprile all’aeroporto internazionale di Dulles senza che ragioni specifiche fossero formulate. Il suo visto, in scadenza il prossimo settembre 2016, è stato revocato. Eppure Saleh è stato accolto all’Onu un anno fa, dove ha raccontato come vivono i siriani ogni giorno, e recentemente è intervenuto alla conferenza Supporting Syria a Londra.
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