Libano. Beirut brucia, ucciso ex ministro anti-Assad
«Prima l’esplosione, la più forte che abbia mai sentito. Poi ho visto come una palla di fuoco e una colonna di fumo denso alzarsi». «Ne ho viste di bombe a Beirut, ma mai in questa zona. Ormai non siamo sicuri da nessuna parte». Beirut ripiomba nell’inferno. E chi ha colpito, lo ha fatto con chirurgica, inquietante, precisione. La vittima dell’ennesima autobomba – la successione degli attacchi che ha investito il martoriato Paese è vertiginosa: basta guardare le recenti date “macchiate” dal sangue, 9 luglio, 15 e 23 agosto, 19 novembre, 4 dicembre – è l’ex ministro delle Finanze libanese, Muhammad Shatah. Ma ad essere violata è stata l’intera cittadella del potere libanese: la voragine causata dall’esplosione si è spalancata in Piazza Starco, non lontano dal Parlamento, in pieno centro cittadino: la zona blindata nella quale si affacciano banche, ministeri e il “Serail”, il complesso-roccaforte del governo, all’interno del quale si trova anche l’ufficio del premier, Najib Miqati. Il bilancio dell’attentato è tragico: oltre all’ex braccio destro dell’ex premier Saad Hariri, sono morte altre cinque persone, mentre sono circa settanta i feriti. Il 62enne Shatah si stava recando a una riunione della Coalizione 14 Marzo, considerata vicina all’opposizione siriana, che si sarebbe dovuta tenere proprio nella casa di Hariri. Un testimone, citato dall’agenzia Reuters ha raccontato che l’auto sulla quale viaggia l’uomo politico libanese «era completamente distrutta, ridotta a un relitto». La sua carta d’identità, lacerata e carbonizzata, è stata ritrovata sul luogo dell’attacco. Per gli investigatori, l’autobomba – una Honda risultata rubata – era stata confezionata con circa 70 chilogrammi di esplosivo. Secondo le prime analisi dei filmati registrati dalle telecamere poste a ogni angolo della zona, la Honda color verde esplosa era stata parcheggiata nel rettangolo a pagamento solo mezz’ora prima. L’ex premier Hariri – figlio di Rafic, a sua volta ucciso in un attentato il 14 febbraio del 2005 – ha subito accusato il movimento sciita Hezbollah: pur senza fare esplicitamente il nome del Partito di Dio, ha puntato l’indice contro «quanti fuggono la giustizia internazionale» per l’attentato costato la vita a suo padre. «Muhammad Shatah è stato ucciso da chi ha ucciso anche Rafic Hariri». L’attacco è un «messaggio terroristico». «Per quanto riguarda i sospetti – ha aggiunto –, sono quelli che cercano di sottrarsi alla giustizia internazionale e rifiutano di presentarsi di fronte al tribunale internazionale». L’allusione è al processo all’Aja contro i cinque uomini di Hezbollah incriminati per l’attentato contro suo padre, che si aprirà a gennaio con gli imputati tuttora latitanti. Hezbollah ha definito l’attentato un attacco all’«unità nazionale».
Da Damasco è arrivata l’immediata smentita: nessuna complicità con chi ha seminato morte a Beirut. Il ministro per l’Informazione siriano, Omran al-Zohbi, citato dall’agenzia ufficiale Sana, ha respinto le accuse lanciate dalla Coalizione 14 Marzo: «Queste accuse sbagliate e arbitrarie – ha detto – sono formulate in un contesto di odio politico». Ma chi era la vittima dell’ennesima strage che ha precipitato Beirut nel caos? Shatah, sunnita, economista, era un aperto oppositore di Hezbollah. Meno di un’ora prima dell’esplosione che lo ha ucciso, su Twitter, aveva accusato il gruppo vicino alla Siria di voler prendere il controllo del Paese: «Hezbollah sta lavorando alacremente per ottenere gli stessi poteri nella politica estera e di sicurezza che ha avuto la Siria in Libano per 15 anni». Shatah era considerato un moderato, «un uomo del dialogo» come lo hanno definito i suoi collaboratori, con un lunga esperienza alle spalle. Aveva lavorato per il Fondo monetario internazionale a Washington e servito come ambasciatore del Libano negli Stati Uniti. Proprio la sua esperienza, lo aveva introdotto nella cerchia dei più stretti collaboratori di Rafic Hariri. Era stato poi anche ministro delle Finanze (dal luglio 2008 al novembre 2009), dopo avere lavorato come consigliere in politica estera per il “giovane” Hariri.