Cinquanta ratifiche, in vigore il Trattato Onu. Così il mondo prova a bandire l'atomica
Il nordcoreano Kim Jong-un, nel settembre 2017, al lancio di un missile balistico con capacità nucleare
L’ultimo a Paese a depositare la propria adesione, in extremis, nella tarda serata di ieri, è stato l’Honduras. Il giorno prima erano arrivati Giamaica e Nauru. Con uno scatto a sorpresa, il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto le 50 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Certo, per produrre effetti dovranno passare altri novanta giorni e si arriverà al 22 gennaio 2021. Ma, ormai, tre anni, tre mesi e diciotto giorni dopo la storica approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, il bando all’atomica è realtà.
E il passo decisivo si è compiuto proprio all’apertura della settimana che, dal 1978, le Nazioni Unite hanno deciso di dedicare al disarmo. «Da ora cambia tutto, le armi nucleari sono illegali secondo una norma internazionale », ha commentato a caldo la International campaign to abolish nuclear weapons (Ican) – con i suoi partner italiani, Rete italiana pace e disarmo e Senzatomica –, insignita dal Comitato di Oslo del Nobel per la Pace proprio per il suo impegno. Fino all’ultimo l’opposizione era stata feroce da parte degli Stati detentori della “bomba”.
Anzi, degli oltre 13mila ordigni esistenti nel pianeta. Il cosiddetto club dei nove che include, oltre ai cinque “possessori legali” in base al Trattato di non proliferazione ( Tnp) – Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina –, anche India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. Capofila della battaglia anti–bando sono gli Stati Uniti di Donald Trump. In una lettera – rivelata dall’Associated Press pochi giorni fa –, Washington era arrivata a chiedere ai sottoscrittori di ritirare l’adesione, definita un «errore strategico». Con un’argomentazione apparentemente paradossale. Il divieto avrebbe «voltato le spalle al sistema di verifica e disarmo stabilito e ciò è pericoloso». Il riferimento è evidentemente al Tnp, siglato nel 1968 e entrato in vigore due anni dopo, e alla teoria della deterrenza che ne costituisce l’asse fondamentale. In base a quest’ultima, l’unico modo per prevenire un attacco nucleare è la minaccia di distruzione totale del nemico.
Come la storia passata e recente, però, dimostra si tratta di un compromesso estremamente fragile. Perché funzioni, i Paesi atomici devono essere sempre pronti al lancio – con un costo di dodici milioni di dollari all’ora –, oltre che essere guidati da leader razionali. Il rischio di annientamento globale, con tale meccanismo, è, dunque, sempre in agguato. Lo ha affermato anche il segretario generale Onu, Antonio Guterres. «Potremmo dirci al sicuro solo quando non esisteranno più le armi nucleari», ha sottolineato il 6 agosto scorso, 75esimo anniversario delle tragedie di Hiroshima e Kagasaki.
Papa Francesco ha sancito in più occasioni l’immoralità delle armi nucleari, incluso nell’Enciclica Fratelli tutti. L’azione diplomatica della Santa Sede è stata importante nel sostenere il divieto. Non a caso, proprio il Vaticano è stato uno dei primi tre Paesi ad aderire al bando, il 20 settembre 2017, insieme a Guyana e Thailandia. Anche nel fronte Nato – sottoposto alla forte pressione Usa –, di recente, qualcosa si muove. Irlanda, Austria e Malta hanno rotto gli indugi e sono diventati parte del Trattato. Il 26 settembre scorso – Giornata Onu per l’eliminazione dell’atomica –, inoltre, 56 ex leader, tra cui Enrico Letta e Franco Frattini, hanno chiesto ai governi delle loro nazioni di fare altrettanto, a dispetto dell’opposizione degli alleati.
Centinaia di città europee – da Berlino a Parigi, da Brescia a Saragozza – si sono espresse a favore del divieto, sottoscrivendo la petizione lanciata da Ican. Mercoledì, il Parlamento Europeo, con 641 voti a favore, cinque contrario e 47 astensioni, ha adottato una risoluzione in cui definisce il Trattato una tappa «imprescindibile» nel percorso per conseguire un mondo senza nucleare. Immutata, invece, finora, la posizione italiana. Roma si era pronunciata contro la Conferenza Onu che lo ha approvato. E poi l’aveva disertata. Anche l’ultimo appello, lanciato da Setsuko Thurlow il 18 giugno scorso, sopravvissuta alla catastrofe di Hiroshima e esponente di Ican, è caduto nel vuoto. Il bando, però, ce l’ha fatta ugualmente.
Secondo noi
SE PROPRIO OGGI L'ITALIA AVESSE...
Se il 20 luglio scorso oltre a rispondere a Setsuko Thurlow dell’Ican, che chiedeva al governo Conte di aderire al Trattato, e alla sua «lettera commovente e all’appassionato impegno per il disarmo nucleare e per un mondo più sicuro», l’Italia avesse fatto anche solo un piccolo passo in avanti rispetto alla posizione fotocopia per mantenere lo status quo assunto dai Paesi Nato, a partire dagli Stati Uniti d’America... Se l’Italia non dichiarasse di temere, come gli altri membri dell’Alleanza Atlantica, che «l’entrata in vigore del Trattato per la proibizione delle armi nucleari possa finire per contribuire a indebolire ulteriormente la credibilità dell’attuale quadro giuridico internazionale sul disarmo nucleare e la non proliferazione»...
Se l’Italia non continuasse a ospitare sul proprio territorio quelle bombe atomiche che gli Stati Uniti e la Nato ci hanno dato da custodire... Se la stessa Nato uscisse da un’ottica di messa a fuoco asimmetrica, che consente da un lato alla Turchia di Erdogan di dotarsi di missili prodotti da quel Vladimir Putin ultimo presidente della Russia sorta dalle ceneri dell’Urss per contrastare la quale proprio l’Alleanza è nata, e dall’altro si contrappone in linea di principio a qualsiasi alterazione dell’attuale (dis)equilibrio armato...
E se all’Onu l’Italia fosse stata l’ultima delle prime cinquanta nazioni che hanno compiuto la ratifica facendo vivere il Trattato... Allora, da oggi, il mondo sarebbe un posto ancora migliore.