Gaza, 2 mesi di guerra. Assedio a Khan Yunis. «Una tregua non prima di gennaio»
Una tendopoli di sfollati dal campo di Khan Yunis, allestita a ridosso del confine di Rafah tra la Striscia di Gaza e l'Egitto
Non c’è tregua all’orizzonte, dopo due mesi di guerra. Almeno fino a gennaio. La macchina militare israeliana ha messo a segno ieri 250 raid aerei in 24 ore. Considerato che la superficie della Striscia di Gaza è di 365 chilometri quadrati, è caduto in media un missile ogni chilometro quadrato e mezzo. In un giorno. Se la guerra su larga scala andasse avanti un mese, come ha detto la Radio Militare citando funzionari della sicurezza a condizione di anonimato, c’è da chiedersi cosa resterebbe di Gaza e dei suoi 2,3 milioni di abitanti. Ma anche dei 138 ostaggi nelle mani di Hamas, della Jihad e delle altre fazioni armate.
Un mese per distruggere, e poi? Secondo la Cnn, che cita alti funzionari della Casa Bianca, da gennaio si passerebbe a una fase di attacchi mirati «a bassa intensità». Stando alla Radio Militare, a quel punto si aprirebbe la finestra per negoziare una pausa umanitaria e il rilascio di tutti gli ostaggi. Quelli ancora in vita, s’intende. Lo stesso vale per la popolazione.
La ricerca delle vittime in un edificio in fiamme dopo un raid israeliano notturno su Rafah - Ansa
Tre sono le obiezioni mosse dagli Stati Uniti: troppe vittime civili; il rischio di una deportazione di fatto dei palestinesi; l’inaccettabile ipoteca israeliana sul futuro di Gaza. Il premier Benjamin Netanyahu ha detto di voler creare una zona cuscinetto per mettere in sicurezza il confine. Sulla tempistica c’è massima incertezza. Ancora più incerto il consenso internazionale.
Ma di tutte le obiezioni solo una potrebbe far breccia nel governo dello Stato ebraico: quella sui rapiti. «La nostra intelligence ha monitorato la situazione dei nostri ostaggi e posso dire con certezza assoluta che ogni istante sotto la prigionia di Hamas mette in pericolo le loro vite», afferma il portavoce dell'esercito Daniel Hagari. Non smentisce però la strategia del martellamento per le settimane a venire. La comunità internazionale dovrebbe «agire», incalza, e insiste che la Croce Rossa verifichi le condizioni degli ostaggi. Sfidando i bombardamenti e chiedendo ai miliziani di aprire le botole delle loro segrete? Già il mese scorso la Croce Rossa aveva replicato di non poter intervenire autonomamente.
L’altra polemica riguarda l’Onu che, secondo Israele, non avrebbe condannato gli stupri perpetrati da Hamas il 7 ottobre. L’Alto commissario per i diritti umani, Volker Turk, ha risposto di avere chiesto per settimane la possibilità di indagare sulle violenze ma Gerusalemme non lo avrebbe permesso. Ad acuire le tensioni la revoca del visto alla coordinatrice umanitaria Onu, Lynn Hastings che, due giorni fa, aveva parlato di «scenario infernale» nella Striscia. Ieri Martin Griffiths, coordinatore dei soccorsi d'emergenza Onu, ha parlato condizioni «apocalittiche» che impediscono qualunque forma di assistenza umanitaria. Il rischio di «collasso dell’ordine pubblico», come ha detto il segretario generale António Guterres, è alto.
Bambini riempiono contenitori di cibo offerto da una Ong nella cittadina meridionale di Rafah - Ansa
Nella terza fase dell’offensiva – che segue i raid di ottobre e la successiva operazione di terra nel Nord – infuriano combattimenti tra i più pesanti in due mesi. Le truppe sono a Khan Yunis, la principale città del Sud, dove avrebbero circondato la casa del leader di Hamas, Yahya Sinwar. Difficile sapere dove si trova lui. Accusato di essere una delle menti degli attacchi del 7 ottobre, non è stato visto in pubblico durante la guerra e Israele lo ha indicato come principale obiettivo militare insieme con Mohammed Deif, leader delle Brigate Ezzedin al Qassam, l'ala armata di Hamas.
I militari continuano a localizzare e distruggere armi, tunnel, ordigni esplosivi. Tra gli obiettivi attaccati, i lanciarazzi utilizzati martedì per sparare sul centro di Israele. Nel Nord sarebbe stato scoperto, vicino a una clinica e a una scuola, uno dei più grossi depositi di armi: «Centinaia di lanciagranate, decine di missili anti tank e di esplosivi, razzi a lunga gittata, granate e molti droni».
Con l’estendersi dei combattimenti al Sud, la popolazione viene spinta sempre più nell’angolo. Quel cantone di terra fra il confine chiuso con l’Egitto, a Rafah, e la desolata costa sud-occidentale. Fuggono a piedi, sui carretti, in motocicletta o con i bagagli ammucchiati sul tetto dell’auto quei pochi che dispongono di carburante. Per qualche ora ieri l’esercito ha osservato una pausa tattica «a fini umanitari» nella zona di Ash Shaboura, distretto di Rafah. Ripetendo di «evitare» la strada Salah al-Din vicino a Khan Yunis dove sono in corso i combattimenti. In una telefonata con Guterres, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha ribadito il «totale rifiuto» di evacuazioni forzate dalla Striscia «all'interno o all'esterno del loro territorio».
A seguito delle pressioni degli Stati Uniti, Israele ha approvato un «minimo» aumento delle forniture di carburante (indispensabile per il pompaggio e la desalinizzazione dell'acqua) per evitare il diffondersi di epidemie.
La disperazione per una vittima bambina all'ospedale Abu Yousef al-Najjar di Rafah - Reuters
Dall’inizio della guerra sarebbero 16.248 le vittime a Gaza, oltre il 70% donne, bambini e adolescenti, stando ai dati del ministero della Sanità controllato da Hamas. Da ieri altri 3 soldati sono stati uccisi, facendo salire il totale a 86. Altri 4 sono feriti in modo grave.
Dall’Italia il ministro della Difesa, Guido Crosetto, promette l’invio di un ospedale da campo «non appena le condizioni lo consentiranno». «Abbiamo interlocuzioni con Israele, Egitto ed Emirati Arabi per trovare la soluzione più idonea. Da martedì un team militare è in ricognizione nel Sud della Striscia. Quando avremo più chiarezza definiremo l’iter». Chiarezza, appunto. Quel che manca a Gaza nel cielo oscurato dai fumi delle esplosioni.