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Il tema. Grandi manovre sul fronte palestinese: guerra di successione ad Abu Mazen

Camille Eid venerdì 5 gennaio 2024

Abu Mazen e Yasser Arafat a Ramallah nel 2003

La guerra di Gaza non è destinata a ridisegnare solamente il panorama politico all'interno di Israele, ma anche nei Territori palestinesi. L'imbarazzante silenzio della leadership della Cisgiordania tradisce il pragmatismo di molti dirigenti, ansiosi di non nuocere alla proprie opportunità di rimpiazzare il presidente Mahmoud Abbas una volta sarà giunto il momento buono.


Almeno in una delle tre cariche che l'anziano

Abu Mazen

(88 anni) occupa contemporaneamente sin dalla morte, nel novembre 2004, di Yasser Arafat. Abbas presiede, infatti, il Comitato centrale del movimento al-Fatah (Ccf), il Comitato esecutivo dell'Olp (Ceolp), che comprende diverse organizzazioni palestinesi presenti anche nella diaspora, e infine il vertice dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), incaricata dal 1993 di amministrare quei territori che venivano man mano sottratti, grazie ai periodici negoziati, all'occupazione israeliana. Il meccanismo di elezione varia da una carica all'altra, ma la sostanza sarà la stessa, anche in caso di una suddivisione dell'eredità di Abu Mazen. Le diplomazie concordano, infatti, sulla necessità di avere un'Anp “efficiente e rivitalizzata”, al di là della forma di governo da instaurare a Gaza il “day after” oppure dell'«agognata inclusione» o meno di Hamas nell'Olp. Detta “rivitalizzazione” implica, secondo gli americani, il “rafforzamento” delle forze di sicurezza palestinesi, il che favorisce per la successione di Abbas quelle figure considerate avvezze sia alle questioni di sicurezza che di negoziato con Israele. Tra i nomi graditi a Washington spicca quello del generale

Hussein al-Sheikh

, diventato negli ultimi anni il vero braccio destro di Abu Mazen.


Al-Sheikh, 63 anni, occupa oggi un posto sia all'interno del Ccf che del Ceolp (in cui ha rimpiazzato il capo negoziatori Saeb Erekat), ma è nella sua veste di ministro degli Affari civili che si è visto aumentare l'influenza grazie ai frequenti contatti con gli israeliani riguardo la concessione di permessi di lavoro in Israele ai lavoratori palestinesi. Al-Sheikh è stato scelto dalla rivista Foreign Policy tra i “migliori profili del 2023”, non importa se un responsabile israeliano lo abbia poi definito “il nostro uomo a Ramallah”. Un altro fedelissimo di Abu Mazen che presenta le sue credenziali agli americani è

Majed Faraj

, il capo dei Mukhabarat, i servizi di intelligence generali (Gis). Faraj si è precipitato di recente al Cairo per cercare di ritirare la proposta di “governo tecnico” palestinese dal piano di pace egiziano. Nominato nel 2009 a capo del Gis, Faraj è stato da allora riconfermato da Abbas (l'ultima volta a marzo, a tempo indeterminato) nonostante la “Basic Law” fissi il mandato della carica a 4 anni.


Nel “Trono di spade” del potere palestinese si inserisce anche

Jibril Rajoub

, per anni a capo della potente Sicurezza preventiva in Cisgiordania e, come tale, “l'erede de facto” del rais. A Rajoub manca oggi il fondamentale sostegno degli attori esterni, ma può comunque contare nella sua corsa alla presidenza su alcuni membri del Comitato centrale del Fatah, in cui siede anche lui in veste di segretario, come pure sulla rete di lealtà claniche che ha costruito nella sua città natale di Hebron. Di largo consenso popolare gode soprattutto il detenuto

Marwan Barghuti

, leader di al-Tanzim, l'ala paramilitare del Fatah ai tempi delle due Intifada del 1987 e del 2000.


Tutti i recenti sondaggi lo vedono in poll position, persino di fronte al leader di Hamas

Ismail Haniye

, con oscillazioni tra il 41 e il 55 per cento delle preferenze. Il punto è che Barghouti sta scontando dall'aprile 2002 cinque ergastoli in un carcere israeliano, il che porrebbe a Israele la spinosa questione di dover liberare il “Mandela palestinese” nel caso di una sua elezione. Sempre in agguato rimane la candidatura di

Mohammad Dahlan

, il più giovane (classe 1961) dei pretendenti. Dahlan comandava nel 2007 la Sicurezza preventiva di Gaza nel momento in cui Hamas ha cacciato dalla Striscia le forze militari vicine ad Abbas, ma poi è entrato in rotta di collisione con il rais per questioni di sottrazione di fondi pubblici.


Nel 2011 Dahlan è stato prima estromesso dal Ccf poi formalmente accusato da una commissione d'inchiesta di aver complottato contro Abbas e, peggio ancora, di essere dietro “l'assassinio” di Arafat con medicine avvelenate. Nonostante le gravi accuse, a Dahlan viene concesso di lasciare la Cisgiordania. Oggi si presenta come valida alternativa ad Abbas dal suo dorato esilio di Abu Dhabi, dove vive sotto la protezione dello sceicco Mohammed bin Zayed (MbZ) che cerca di promuoverlo presso gli egiziani e i sauditi. Un altro outsider finito in disgrazia è

Nasser al-Qudwa

, nipote di Arafat, che ha occupato per un lungo periodo il seggio dell'Olp alle Nazioni Unite prima di essere nominato ministro degli Esteri dell'Anp. Qudwa è entrato in conflitto con Abbas ed è stato anch'egli estromesso nel 2021 dal Comitato centrale del Fatah.


A una delle tre ambite cariche concorrono anche figure di secondo piano, come

Mahmoud al-Aloul

, il vice di Abbas in seno a Ccf, che pensa di potere essere accedere almeno alla presidenza del Fatah. Poi c'è

Tawfiq al-Tirawi

, un ex capo del Gis che ha accompagnato Arafat negli ultimi anni della sua vita, in particolare durante il suo assedio a Ramallah, e che gode di una certa popolarità nella zona di Nablus e di Gerico. Altri candidati in pectore sono

Azzam al-Ahmad

, membro sia del Ccf che del Ceolp, che aveva guidato in passato i negoziati di riconciliazione con Hamas, e infine l'economista

Mohammad Shtayyeh

, dal 2019 primo ministro dell'Anp, forse l'unico vero tecnico dell'intera rosa di pretendenti. Gli osservatori non escludono che due o tre nominativi – soprattutto dell'ultimo gruppetto – possano fare fronte comune solo per sbarrare la strada a rivali più potenti, come al-Sheikh e Faraj. Per molti dei personaggi citati la membership del Ccf sembra essere un buon trampolino verso cariche più in alto.


Ma non basta. Una delle carte vincenti capaci di promuovere questo o quel candidato è l'avallo di determinati Stati arabi: in primis Egitto, Giordania e Arabia Saudita, senza dimenticare Qatar ed Emirati. Un'altra carta è il curriculum di lotta contro l'occupazione, con ben in risalto il numero degli anni scontati nelle prigioni israeliane. Ciò vale ovviamente per il super detenuto Barghouti, ma anche per Rajoub e Sheikh, rispettivamente con 17 e 11 anni di carcere, dal quale sono usciti entrambi con un'ottima padronanza dell'ebraico.


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