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Africa. Angola, nel regno dei diamanti si muore di fame

Ilaria de Bonis lunedì 15 luglio 2024

Padro José Manuel Imbamba, arcivescovo di Saurimo

L’estremo nord-est dell’Angola è ufficialmente il paradiso degli investitori di diamanti. Nonostante il crollo dei prezzi sui mercati internazionali, il business diamantifero resta fiorente. L’anglo-sudafricana De Beers (quella dei bloody diamonds denunciati dalla Ong Global Witness nel 1998) è tornata in auge da alcuni mesi ed investe sia a Lunda Norte che a Lunda Sul, regioni diamantifere per eccellenza. Lo Stato di diritto, però, nel Paese a lungo dilaniato dalla guerra civile non è mai esistito e la povertà continua a mordere. «Com’è vivere a Saurimo? È subire la povertà più assoluta. Noi ci troviamo a circa mille chilometri dal mare, nell’entroterra, tra le miniere di diamanti più redditizie al mondo e la savana. È una zona geologicamente ricchissima e c’è anche tanta acqua». Ma non c’è lavoro e non si coltiva più la terra per via del proliferare delle miniere. A parlare con noi da Lunda Sul è padre José Manuel Imbamba, arcivescovo di Saurimo, cittadina di 80mila abitanti che vive prevalentemente di manioca e patate dolci, non lontano dal confine con la Repubblica democratica del Congo.

I diamanti non sono garanzia di benessere per il popolo, ci spiega l’arcivescovo: «L’Angola avrebbe tanto, forse tutto per vivere bene, ma affronta asimmetrie inaccettabili e tanta corruzione». Nella miniera di Lulo (che assieme a quella di Luele è tra le più promettenti e pregiate di tutta l’Africa) nel 2022 l’australiana Lucapa Diamond ha trovato un diamante alluvionale rosa di ben 170 carati chiamato “lulo rosa”. La scoperta di giacimenti potenzialmente infiniti (Luele è entrata in funzione lo scorso anno ed è in grado di produrre 628 milioni di diamanti nell’arco di 60 anni) non mette al riparo gli oltre 500mila abitanti dalla povertà al Norte, condizioni analoghe per gli altri 250mila di Lunda Sul. Al contrario, toglie terra e agricoltura. «Tutti vogliono guadagnarci – afferma l’arcivescovo – e i capitali vanno a finire nei paradisi fiscali». I proventi dei diamanti non vengono reinvestiti in servizi sociali e lavoro. I “forzieri” sotterranei rendono persino meno degna la vita della gente comune. A 50 anni dall’indipendenza dal Portogallo e dopo 22 di relativa pace, «la vita sociale continua con le sue sfide e la democrazia non dà segnali di vitalità», precise Imbamba. In particolare non funziona il rispetto dei più elementari diritti umani: la giustizia è inversamente proporzionale alla ricchezza contenuta nel sottosuolo dell’est del Paese.

La società civile però, è viva e vegeta da queste parti: il 28 maggio scorso il Movimento Civico Mudei (che dal 2021 monitora l’andamento dello Stato di diritto nell’era che segue al “regno” del defunto presidente José Eduardo dos Santos) ha pubblicato un dossier sulla sorte di 235 prigionieri “politici” in carcere senza un motivo valido, nelle quattro province dell’est. Non a caso ciò accade proprio nelle regioni più dense di minerali preziosi tra Moxico, Lunda Norte e Lunda Sul. Gli arresti arbitrari sono diventati una norma qui. «L’intenzione di chi reprime è quella di scoraggiare le voci dissonanti», dicono gli attivisti. «La nostra proposta invece rappresenta un contrappeso che incoraggia a liberarci dalla paura». Finora chi denunciava l’ingiustizia (sottrazione di terre, abusi di potere e prepotenze) finiva dietro le sbarre. E questo ancora accade. I detenuti a Saurimo sono 180 e tra loro ci sono diversi anziani. L’accusa? Ribellione e disobbedienza. Per legge, dal 2000 ad oggi la concessione dei diritti di estrazione mineraria è stata limitata a superfici non superiori a tremila chilometri quadrati: le royalties per l’estrazione dei preziosi sono pari al 5% del valore lordo dei diamanti prodotti, mentre le tasse sono pari al 6%. Nelle tasche dei cittadini però non entra una kwanza (la moneta locale). I terreni invece vengono espropriati senza risarcimento e senza pietà. «Quella della Chiesa cattolica che denuncia le ingiustizie – afferma ancora l’arcivescovo – è una voce che non si può far tacere. Mette il dito nella piaga della politica. Il partito è più importante dello Stato qui». La storia in Angola non cambia: a gennaio del 2020 l’impero della donna più ricca d’Africa, Isabel dos Santos, figlia del presidente Eduardo, crollava sotto i colpi di un’inchiesta giornalistica internazionale. I Luanda Leaks hanno svelato la fitta rete di illeciti finanziari a danno del popolo angolano. Ma con João Lourenço la svolta non c’è stata. E ancora oggi si combatte la corruzione. «Vizi e corruzione sono ad altissimo livello – avverte il vescovo – e la gente non crede più nell’unità e nei valori della nazione». Inoltre il divario ricchi-poveri si allarga. Persino i luoghi del divertimento (le discoteche e i locali pubblici) a Luanda sono nettamente separati tra chi può e chi no. Una sorta di apartheid della povertà in posti dove se non hai i mezzi non entri. Peraltro il mercato degli immobili ha visto crescere a dismisura i prezzi del mattone, tanto che la capitale è la città più costosa dell’Africa subsahariana e i quartieri sono nettamente separati. La speranza viene dai più giovani: su 29 milioni e 780mila abitanti, l’80% ha meno di 30 anni. E sono loro che potranno cambiare il sistema. A patto che il sistema non li reprima anzitempo, togliendo la possibilità di dire basta.

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