Mondo

Rapporto. Amnesty: i diritti umani minacciati dalla cultura dell'odio

Alessia Guerrieri giovedì 22 febbraio 2018

Una manifestazione di Amnesty International (Ansa)

C’è un tema che accomuna, nel male, la vita di 159 Paesi del mondo. E questo filo rosso si chiama odio. È infatti l’hate speech, la contrapposizione “noi-loro”, spesso prodotta dagli stessi governanti, a generare nel mondo la più comune violazione dei diritti umani. Un acuirsi dell’intolleranza verso il “diverso” che però sta portando a una nuova era di attivismo, digitale e non, per combattere le ingiustizie. C’è insomma una spinta verso la richiesta di «un futuro di maggiore speranza» – come lo definisce il segretario generale di Amnesty International Salid Shetty – nel rapporto sui diritti umani nel mondo nel 2017-2018 che l’organizzazione ha presentato ieri a Roma, in contemporanea con molte città del mondo. A partire da Washington, proprio perché «è lì che è stato dato il via da Trump alla scia d’odio, approvando all’inizio del 2017 il Muslim ban» – è l’esordio del responsabile di Amnesty Italia Antonio Marchesi – ricordando che «l’arretramento della presidenza Trump sui diritti umani sta stabilendo un precedente molto pericoloso» anche per altri governi su pratiche «fino a qualche tempo fa impensabili».

Migranti, omosessuali, donne, minoranze etniche. Sono questi i principali obiettivi della crescente tendenza all’odio nel mondo che coinvolge non solo gli Usa, ma anche la Russia che continua a «limitare la libertà d’espressione» oppure il Myanmar in cui prosegue la campagna contro i Rohingya e la Cina dove «con la scusa della sicurezza nazionale, il governo continua a introdurre leggi che costituiscono una grave minaccia per i difensori dei diritti umani». In sostanza, in molte parti del mondo – è la denuncia che emerge dal report di oltre 600 pagine – c’è la tendenza dei leader politici a promuovere fake news per manipolare l’opinione pubblica o ad attaccare gli organismi di controllo sui poteri. Un atteggiamento che porta Amnesty a sostenere che «quest’anno la libertà di espressione sarà un terreno di battaglia per i diritti umani».

A dimostrare l’inasprimento del clima globale anche il crescente numero di attivisti uccisi nel 2017, almeno 312, soprattutto in America Latina, e i 262 giornalisti messi in prigione «per aver svolto il proprio lavoro – continua Marchesi – soprattutto in Turchia, Cina, Egitto. In Messico, poi, 11 reporter sono stati addirittura assassinati». Di fronte ad un malcontento sociale diffuso, e al crescere di persone che con sempre più difficoltà accedono a servizi fondamentali come il cibo o le cure mediche, «si assiste però ad un piccolo barlume di luce che viene dalla società civile», conclude il presidente di Amnesty, cioè «la crescita di nuovi e vecchi attivisti impegnati in campagne per la libertà e la giustizia».

Il clima di odio, comunque, non risparmia nemmeno l’Italia, a cui l’organizzazione ha voluto dedicare uno specifico focus attraverso il monitoraggio in campagna elettorale delle dichiarazioni sui social di oltre 1.400 candidati alle elezioni politiche e regionali. E quello che ne viene fuori finora – è il duro ritratto del direttore generale di Amnesty Italia Gianni Rufini – è un Paese «intriso di odio, razzista e xenofobo, che ha paura dell’altro, del diverso: migranti, rom, lgbt ma anche donne e poveri». Un linguaggio di ostilità che nell’8% dei casi coinvolge anche i candidati alle elezioni e un leader politico su tre. Otto volte su dieci, secondo questa analisi, le dichiarazioni hanno come bersaglio i profughi, il 12% la discriminazione religiosa, il 5% i rom e il 4% le differenze di genere.