America Latina. Il «Giardino di casa» degli Usa è ormai la pattumiera della plastica
L'America Latina è la grande pattumiera della plastica made in Usa
C'era una volta il «Giardino di casa» degli Stati Uniti. Così, a lungo, è stata considerata l’America Latina. Definizione che, negli ultimi tempi, numerosi analisti hanno messo in dubbio dato l’avanzare di Mosca e Pechino nella regione a spese di Washigton. Di certo, però, l’immensa regione tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco è diventata, dal 2018, la “grande pattumiera” della plastica “made in Usa”.
Quell’anno, la Cina ha chiuso i battenti ai rifiuti plastici esteri. Le aziende statunitensi, dunque, hanno cominciato a guardare verso Sud. Il balzo, tuttavia, è arrivato con il Covid quando anche altre nazioni asiatiche hanno innalzato barriere. Se, nel 2020, l’America Latina ha ricevuto, in media, 35 camion di residui plastici, l’anno successivo, solo nel periodo tra gennaio a ottobre – in base ai dati Last Beach Cleanup – ne sono arrivati 57, quasi il doppio, per un totale di oltre 89mila tonnellate. La gran parte – 60mila – va in Messico. Ma anche in Paesi piccoli come El Salvador, delle stesse dimensioni della Lombardia, altro grande recettore insieme all’Ecuador, l’altro grande recettore. Una serie di condizioni hanno reso tanto “riuscito” l’asse della plastica Usa-America Latina. Alle aziende statunitensi risulta meno costoso e complicato esportare i propri residui perché siano riciclati all’estero piuttosto che smaltirli in patria. Anche perché la produzione di nuova plastica è più economica della sua trasformazione. Da qui il fiorire di una serie di “imprese di recupero” nel Sud del pianeta che spesso sono solo scatole vuote attraverso cui transitano i rifiuti per poi finire seppelliti in discariche illegali o addirittura in mare. Proprio per evitare questa forma di “imperialismo della spazzatura” – più volte denunciato dalle organizzazioni ambientaliste –, nel 2019, è stato aggiunto all’accordo di Basilea un emendamento sulla plastica che ne proibisce l’invio negli Stati in via di sviluppo. A meno di un’apposita autorizzazione dei rispettivi governi. Buona parte dei Paesi del mondo l’hanno firmato, inclusi quelli latinoamericani, ma non Washigton.
Il flusso di plastica da quest’ultima è proseguito. E verso la parte Sud del Continente non solo è andato avanti ma si è intensificato, grazie ad accordi diretti tra aziende Usa e gemelle collocate in America Latina. Come afferma la Global alliance for incinerator alternatives (Gaia), rete di oltre ottocento organizzazioni ecologiste, questo si deve a una serie di vuoti legali e carenze nei sistemi di controllo. In particolare, difficilmente le autorità locali verificano che la plastica “yankee” sia effettivamente riciclabile. Gli studi dell’Università Andina Simón Bolívar hanno calcolato che meno della metà lo sia.
«Le dogane danno uno sguardo distratto ai carichi di spazzatura, non sanno che cosa effettivamente stia entrando», afferma l’esperta María Fernanda Solís. Le società a cui è destinata ovviamente lo sanno. E conoscono, pure, il modo di disfarsene, data l’assenza di un tracciamento efficace dei rifiuti ricevuti. Un numero crescente di queste ultime sono cinesi, in cerca di nuove occasioni di business dopo lo stop di Pechino. Anche nella migliore delle ipotesi, quando si tratta di scarti plastici effettivamente riciclabili, il processo richiede enormi quantità d’acqua che, in genere, in America Latina, viene sottratta alle comunità contadine. Di rado, infine, le aziende locali hanno sistemi adeguati per smaltire in modo sostenibile le acque residue. Per questa ragione, la rete Gaia ha lanciato un forte appello al mondo e agli Usa, in particolare. «L’America Latina non è una discarica. Stop al flusso di rifiuti plastici nella regione e nel Sud del pianeta», si legge nella dichiarazione pubblica. Finora, però, il grido d’allarme è rimasto inascoltato. E le esportazione di plastica “made in Usa” continua a crescere.