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New York. L’America fa i conti con i baby jihadisti

Elena Molinari giovedì 23 ottobre 2014
Erano uscite la mattina presto, come sempre, per andare a scuola, ma poche ore dopo tre adolescenti di un sobborgo di Denver si sono imbarcate su un aereo che le avrebbe dovute portare a combattere la jihad. È l’incredibile storia di due sorelle di origine somala, di 15 e 17 anni, e di un’amica di 16 anni di origine sudanese che sono state fermate all’aeroporto di Francoforte in Germania da dove volevano poi andare in Siria. Secondo l’Fbi di Denver, le ragazze sono ora negli Stati Uniti. Era stata alla polizia locale che i genitori si erano rivolti subito dopo la scomparsa delle giovani, preoccupati dalla sparizione dei passaporti delle figlie e di circa 2mila dollari. In poche ore gli investigatori, analizzando i computer delle famiglie, erano riusciti a ricostruire il piano di fuga, organizzato dalla più grande, e a rendersi conto di essere di fronte ad un caso «preoccupante». Ora gli inquirenti cercano di stabilire se le tre ragazzine siano state ispirate o aiutate da un reclutatore, incontrato in rete o nel loro circuito sociale. Un portavoce della famiglia somala ha detto di non essere sicuro che le ragazze abbiano comprato da sole il biglietto aereo. Finora non è stato possibile ottenere molte informazioni dalle ragazzine – che, una volta tornate a casa, sono crollate a dormire – anche perché al momento la polizia non sembra considerare possibili incriminazioni. Rimane però la forte inquietudine per un caso che dimostrerebbe come il fenomeno del reclutamento di jihadisti nelle comunità degli immigrati nei Paesi occidentali possa arrivare a coinvolgere anche i giovanissimi. E non solo negli Stati Uniti. Diversi gruppi musulmani in Australia hanno infatti condannato ieri le minacce lanciate in un video propagandistico da un jihadista di Sydney di appena 17 anni, fuggito da casa per unirsi ai militanti dello Stato islamico in Siria. Abdullah Elmir vi compare a fianco di combattenti Is, minacciando il primo ministro australiano Tony Abbott e il presidente americano Barack Obama e affermando che la jihad non si «fermerà finché la bandiera nera dell’Is non sventolerà in ogni nazione». Otto organizzazioni musulmane hanno diffuso una lettera congiunta di condanna, temendo che il video aggravi le condizioni degli immigrati di origine musulmana in Australia. La portavoce del gruppo, Lydia Shelley ha fatto appello alla calma, aggiungendo che è necessario capire le cause del fenomeno. «Speriamo che i musulmani in Australia non siano macchiati da questo», ha detto. Il Consiglio nazionale australiano degli imam ha espresso allarme: «Condanniamo nei termini più forti possibile qualsiasi minaccia contro australiani», ha scritto in un comunicato, chiedendo che il governo impegni maggiori risorse per identificare e prevenire le cause della radicalizzazione di giovani islamici. In risposta, il premier Abbott ha dichiarato che il video «mette di nuovo in luce la minaccia dell’Is verso l’Australia, che per questo si è unita alla coalizione e dà alle agenzie di sicurezza i poteri e le risorse di cui necessitano per mantenere più al sicuro possibile in nostri cittadini». Il pericolo della radicalizzazione dei giovani preoccupa ancora di più i Paesi arabi moderati. Ieri, ad esempio, un giovane tunisino di 23 anni, Bilel Kaabi, è morto in Libia su un’auto imbottita d’esplosivo. L’esplosione è avvenuta a Bengasi e non è chiaro se Kaabi abbia messo in atto un attentato suicida o sia morto accidentalmente mentre stava spostando l’auto-bomba. Il fratello Walid ha accusato i capi della moschea Al Hidaya della città di Kairouan che, a suo dire, avrebbero convinto Bilel Kaabi – assieme ad altri ragazzi – ad abbracciare le tesi più estremistiche dell’islam salafita e a partire verso la Libia per combattere insieme ad altri 4 giovani tunisini, anch’essi indottrinati da imam salafiti.