Amazzonia. Peones peruviani schiavi del traffico di legname raro
Lenta e inesorabile, la canoa si muove sicura al ritmo del Grande fiume su cui è adagiata. La colombiana Leticia è alle spalle. Sulla sinistra c’è il Brasile. A destra il Perù e la piccola Islandia, la “Venezia amazzonica”. Nell’epoca delle piogge, il Rio delle Amazzoni invade le strade e le trasforma in canali. Per tale ragione, questo villaggio di legno, con poco più di duemila abitanti, è interamente sopraelevato. Così, nella stagione secca, quando l’acqua si ritira, appare come un groviglio di palafitte, addossate le une alle altre quasi volessero sostenersi a vicenda. Gli aserraderos – segherie – stanno appena fuori dal centro abitato. Il loro gemito costante accompagna la vita della comunità. Islandia è uno degli epicentri del business del legname, uno dei traffici più diffusi della Triple Frontera, la Triplice frontiera. Un labirinto acquatico di 1.631 chilometri in cui tre Paesi si incontrano in un intreccio di tornanti e isole di differenti nazionalità. È il Rio a disegnarle e cancellarle in un incessante impeto architettonico. Su queste geometrie variabili scorrono senza sosta commerci d’ogni genere, dalla droga agli esseri umani a, soprattutto, i tronchi pregiati. Al quarto posto nel pianeta per superficie boschiva, il Perù produce, in media, ogni anno, 2,6 milioni di metri cubi di legno. Buona parte viene prelevato dalle riserve amazzoniche. In modo illegale. Le stime sono allarmanti. Per il governo, almeno il 40 per cento del prodotto nazionale è di origine illecita. Esperti indipendenti parlano addirittura dell’80. In teoria, la legge peruviana consente di commercializzare solo legno certificato, cioè estratto da aree destinate a tale utilizzo. La provenienza è attestata da due documenti ufficiali forniti dall’Istituto nazionale per le risorse naturali (Inrena). Gli scarsi controlli da parte di quest’ultimo, però, favoriscono un fiorente scambio sottobanco di titoli e concessioni. Nella “lavatrice” dei certificati peruviani finisce anche il legno prelevato nei lati brasiliano e colombiano della Frontera. Particolarmente vulnerabili all’estrazione sono le terre indigene, a volte con la collaborazione – forzata dalla penuria economica – di esponenti della comunità. «Mio padre era tagliatore. A 11 anni ho iniziato ad aiutarlo a Rio Tigre, vicino a Loreto, in Perù, dove vivevamo. Piano piano ho imparato. Sapevo che era una vita durissima. Ma non avevamo soldi. Dovevo aiutare la mia famiglia. Che cos’altro potevo fare? Così mi sono messo a cercare un habilitador ». Nel gergo dell’industria del legno clandestino, l’ habilitador è il tramite tra l’impresario, che ordina la partita di legname e si occupa della sua commercializzazione, e i peones, i tagliatori. È lui ad arruolare la squadra per soddisfare le richieste del committente. Per far funzionare un posto di raccolta o accampamento ci vogliono 10-20 persone, inclusa una cuoca – spesso costretta a prostituirsi – e il montaraz, la guida, in grado di orientarsi nella foresta e trovare gli alberi più richiesti: cedri, mogani, palissandri e cumaru. «Tecnicamente non è lavoro forzato. La manodopera accetta una proposta. Lo fa, però, perché costretta dall’estrema necessità materiale. E perché priva dei mezzi culturali per esigere garanzie», spiega una fonte impegnata da anni nell’assistenza alle vittime del legno illegale. L’offerta è volutamente vaga e il compenso di solito si aggira intorno ai dieci dollari al giorno, spese escluse. Quali siano queste ultime e che ammontare abbiano non è dato saperlo prima. L’accordo, infine, è solo verbale: nessun contratto stabilisce gli impegni reciproci. A rendere ancor più ambigua la situazione contribuisce il sistema degli anticipi. A ogni lavoratore viene dato un acconto compreso tra i 90 e i 300 dollari per comprare l’attrezzatura: stivali, casco, lanterna, vestiti. Tale cifra viene scontata poco a poco insieme al resto dei costi vivi: cibo, medicine, trasporto. Il lavoratore si trova, così, indebitato con il reclutatore ancor prima di cominciare. Per rifondere la somma presa, dovrà lavorare, ma nel corso dell’incarico accumulerà nuovi debiti. «La prima volta, dopo sei mesi, sono andato dal responsabile dell’accampamento a ritirare il salario. Mi ha fatto i conti ed è risultato che non mi dovevano niente. Anzi, ero ancora in debito. Il fatto è che ti fanno pagare tutto. E carissimo», racconta Manuel, 22 anni, a voce bassissima. Gli accampamenti sono completamente isolati. Senza possibilità di accedere a servizi, dunque, i peones si trovano in balia dei reclutatori. «Non è che non te ne possa andare. È che non sai come farlo. Allora stai zitto e sopporti le grida, gli insulti, le minacce, le punizioni. Spesso, se non sei abbastanza veloce ti lasciano senza pranzo o peggio». Vari testimoni – sotto garanzia di anonimato – hanno raccontato di «punizioni corporali», senza voler fornire ulteriori dettagli. I maltrattamenti si sommano a condizioni di lavoro già di per se terribili. «La cosa più importante è imparare come far cadere l’albero. Se sbagli posizione, rischi che ti prenda in pieno», afferma Rodrigo, indigeno Tikuna, il popolo più numeroso – circa 60mila persone – della Triple frontera. Il suo amico, Guillermo, è morto così. Il grosso cedro che stava tagliando gli è caduto addosso, schiacciandolo. «L’ho saputo quando è finito l’incarico, un mese dopo. Nostro figlio era appena nato. Guillermo era partito per lui. Voleva racimolare qualcosa per il bambino che stavamo per avere. Invece, l’habilitador non mi ha dato niente. Eppure mio marito aveva lavorato per quasi un anno. “Ringrazia che non ti faccio ripagare il suo debito”, mi ha detto. A chi lo denuncio?», dice Lavinia, mentre tiene il piccolo Guillermo in braccio. Suo padre non l’ha mai visto. «Spero solo che mio figlio non diventi anche lui un tagliatore. Non voglio perderlo. Il fatto è non c’è altra strada se nasci da queste parti». (3. Continua) ©