Crisi demografica. Alla fine la Cina deve ammettere: «Mai così pochi nati da 60 anni»
Dopo essere stata accusata di non darne abbastanza – o di darli fasulli –, la Cina in questi giorni ci sta inondando di numeri. Ieri sono arrivati, a livello ufficiale, quelli sulla crescita, che nel 2022 è stata del 3%, peggio di quel che si sperava ma meglio di quel che si temeva, sul commercio internazionale, che è in netta ripresa (in media del 17%, quello con l’Italia è aumentato del 5.4%), e di alcuni settori della produzione industriale. Come quello delle auto: con oltre 3 milioni di autovetture esportate, la Cina ha superato la Germania come secondo Paese esportatore e si prepara all’ennesimo, storico sorpasso. Quello sul Giappone, che per ora continua a mantenere la prima posizione, con circa 4 milioni di vetture esportate.
Ma il dato più importante è quello sul calo della popolazione. Oramai da tempo annunciato – tant’è che da quest’anno sarà l’India il Paese più popolato del mondo – ma che da ieri ha numeri precisi.
Per la prima volta dai tempi del Dàyuèjìn , l’ambizioso quanto disastroso «grande balzo in avanti» alla fine degli anni ’50, la Repubblica Popolare denuncia infatti un “saldo” negativo tra nascite e decessi.
Nel 2022 la popolazione è calata di circa 850mila persone. Se il trend – comune peraltro agli altri grandi Paesi della regione, come Giappone e Corea (ma non il Vietnam) – dovesse continuare, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 miliardi nel 2030 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2030. Segno che le varie iniziative pro-maternità adottate negli ultimi anni per correggere gli effetti della lunga e per certi versi crudele politica del figlio unico non hanno avuto grande successo.
È difficile, al momento, valutare l’impatto economico e sociale di questa tendenza: c’è chi teme che possa ritardare ulteriormente la ripresa, e chi invece sostiene che possa accelerarla. Il cosiddetto «dividendo demografico», non sembra granché alterato: la Cina può sempre contare su oltre il 60% della popolazione “attiva”, con una percentuale di over sessanta del 14,5%, contro il 28% del Giappone, dove al calo demografico corrisponde un progressivo invecchiamento della popolazione. Basti pensare al numero degli ultra centenari: nel 1960 erano meno di un centinaio, oggi sono quasi 100mila. Quello che tuttavia accomuna Cina, Corea (del Sud) e Giappone è la scarsa voglia di far figli, e le motivazioni sono molto simili. Innanzitutto il timore di non riuscire a mantenerli. Cina e Corea sono i Paesi dove costa di più portare un figlio fino alla maturità: si parla di circa 70mila euro, pari a 7 volte il reddito pro capite. Negli Usa arriva a quattro volte, e nella maggior parte dei Paesi europei è circa 3 volte. Ma la riluttanza a fare figli – come ha ricordato di recente in un suo editoriale il quotidiano giapponese Asahi nel commentare il recente programma di incentivi per le famiglie disposte ad abbandonare Tokyo per andare a vivere in provincia – non dipende solo dall’incertezza economica.
«Fare figli è una scelta positiva, un atto di fiducia nei confronti della società in cui si vive. È evidente che in questo momento questa fiducia non c’è. Soprattutto da parte delle donne». Nonostante i recenti adeguamenti legislativi, le società orientali impongono ancora alle donne un ruolo tradizionale, nella cura e gestione dei figli, che molte di loro non vogliono più accettare. E per evitare di essere comunque costrette a farlo, una volta sposate, decidono di restare single. E infatti il calo dei matrimoni è un altro dato che accumuna Cina, Giappone e Corea del Sud.