Il rumore dei passi si perde nel fragore delle raffiche “al piano di sopra”. Due rampe di scale, una discesa di circa tre metri, e si entra in una dimensione altra. Dove la normalità combatte la sua lotta quotidiana per resistere alla guerra. Da almeno un anno, Aleppo sopravvive in un universo sotterraneo, fatto di bunker, gallerie e cantine, trasformati in aule e ospedali per sfuggire ai bombardamenti dell’esercito. Un uomo in mimetica si affretta per gli scalini. È un ribelle che accompagna il figlio nella scuola gestita dal Syrian Team for Progress and Responsability, una onlus locale. In questa zona, grazie ai fondi raccolti dai volontari dell’associazione modenese Time4life – guidata dall’avvocato 32enne Elisa Fangareggi, con cui stiamo facendo questo viaggio – sono stati realizzati cinque istituti scolastici in cui studiano dai 600 ai 700 studenti. Per arrivare fin qui abbiamo dovuto fare uno slalom chiusi dentro un’ambulanza (per evitare possibili sequestri), fra un posto di blocco e l’altro, cercando di scampare ai colpi di mortaio e ai combattimenti che infuriano “in superficie”. Sotto, però, non c’è posto per la guerra. Questa deve restare fuori. Anzi sopra. Nei bunker si continua a fare i compiti, a studiare, a vivere. Con fatica e determinazione. Le classi sono molto spoglie, attrezzate con quello che è stato trovato sul momento: banchi di legno o seggiole da conferenza e una lavagna alle pareti. «Abbiamo solo un libro per le varie materie e dobbiamo fare le fotocopie per tutti», ci spiega Nahed, una giovane insegnante. Improvvisamente si sente un colpo di mortaio, forte, molto vicino. Sobbalziamo, ma poi guardiamo i bambini e ci accorgiamo che nei loro occhi non c’è paura, né sorpresa. È solo l’ennesimo boato che sentono da un anno a questa parte. «Per loro è la normalità», aggiunge la docente. I ragazzi sono contenti di poter andare a scuola. «È meglio andare a scuola a imparare, piuttosto che restare a casa a fare niente», afferma una bimba. Usciamo dalla scuola e proseguiamo il viaggio nella Aleppo sotterranea alla volta delle cliniche in cui i pochi medici rimasti in città curano clandestinamente civili e guerriglieri. In superficie, le cliniche sono state rase al suolo dagli scontri. Ai sopravvissuti non è rimasto che allestire dei centri medici negli scantinati. Li raggiungiamo a bordo di un furgone completamente chiuso. Nemmeno noi dobbiamo sapere dove si trovano queste cliniche. Dopo 15 minuti di viaggio arriviamo a un complesso che, un tempo, doveva essere una residenza di lusso. Ora è tutto in rovina. Entriamo in una villa, scendiamo le scale e troviamo l’ospedale. All’interno, pur nell’estrema povertà della situazione e dei macchinari a disposizione, c’è tutto il necessario per operare i feriti. Una parte è dedicata alle donne (c’è perfino un’incubatrice). La clinica del dottor Kais è “sotto” lo stabile vicino. Qui si curano i feriti che i combattimenti del “piano di sopra”, incessantemente, producono. «Abbiamo tutto il materiale che ci serve qui, ma abbiamo problemi ad aggiustare i macchinari che si rompono. I dottori li abbiamo, ma non possiamo fare nulla senza materiale. Abbiamo bisogno di medicine e di una fornitura regolare. All’inizio ho pensato che fosse pericoloso lavorare qui, ma quando ho visto la gente perdere tutto allora ho pensato che la priorità erano loro – spiega il medico ed ex primario –. Nessuno deve sapere dove sono gli ospedali: chiamano il numero di emergenza per essere portati qui. Ci contattano personalmente». Nelle ville intorno a quest’area vivono diversi medici come Kais che dedicano la loro vita a curare la gente di Aleppo. Civili, dunque, ma anche oppositori colpiti negli scontri. Fuori, nel cortile, si vedono siringhe e garze sporche di sangue lasciate a terra che testimoniano di come, soprattutto la notte, le ambulanze arrivano qui scaricando feriti. In lontananza si sentono ancora colpi di mortaio. La battaglia per la conquista di Aleppo prosegue, senza vincitori né vinti. Solo tanti, tanti, donne e uomini da curare. Presto, il dottor Kais e i suoi medici avranno di nuovo molto lavoro da fare.