Città simbolo del conflitto civile che sta logorando la Siria da cinque anni, Aleppo rimane nella morsa dell’esercito governativo e delle forze ribelli senza che nessuna delle parti riesca a prevalere. «Aleppo è strategica per varie ragioni », spiega Massimiliano Trentin, ricercatore presso l’università di Bologna, esperto di Medio Oriente e in particolare di Siria. «È sempre stata la capitale economico-produttiva del Paese e rimane comunque sulla direttrice commerciale del Paese fra Nord e Sud, Est e Ovest, anche se seriamente danneggiata». Ora, «la sua ricchezza si è persa con la guerra e così sarà per i prossimi decenni, anche perché gran parte delle strutture manifatturiere è stata smantellata, rivenduta in Turchia per raccogliere denaro». Una decomposizione del tessuto industriale non sempre destinata a finanziare una causa, piuttosto a garantire la sopravvivenza a chi non è scappato dall’area. Non si può dimenticare, però, il ruolo politico del secondo centro urbano di Siria: «Tradizionalmente, anche negli anni ’80, ad Aleppo sono sempre esistite sacche di resistenza esplicita o implicita al regime di Damasco». In seguito, a partire dal 2012, è diventato cruciale per ciascuna delle parti impossessarsi della città «per controllare il Nord del Paese». «D’altronde – commenta l’analista – quella della Siria è una storia di frequenti lotte per il controllo dei centri urbani in opposizione alle campagne agricole ». Ad Aleppo, al momento il regime ha tenuto duro, ma anche le opposizioni, che provano a rilanciare l’offensiva a Ovest. Ma quali opposizioni sono ora presenti sul campo? «Jabhat al-Nusra e Ahrar as-Sham sono i gruppi che, anche grazie all’appoggio di Turchia e Arabia Saudita, hanno ottenuto risultati effettivi, coordinandosi in diverse aree». Il regime di Bashar al-Assad sembra attraversare un frangente critico: «Le difficoltà economiche e militari sono evidenti, ma sarei cauto nel dire che si sta sfaldando». Trentin fa riferimento agli articoli pubblicati in questi giorni da organi di stampa mediorientali, secondo cui il presidente siriano starebbe perdendo l’appoggio dei consiglieri più stretti. Un colpo di stato sarebbe stato ordito da alti esponenti dei servizi segreti, scontenti della crescente influenza di Teheran a Damasco. «È indubbio che senza l’Iran il regime siriano difficilmente potrebbe sopravvivere. Ma non vuol dire che esso risponda in tutto e per tutto a Teheran: questa è la retorica saudita, come in Yemen». E ancora, pensando al passato, «discussioni dentro alla cerchia dirigenziale siriana ci sono sempre state, non sono una novità: alcuni alauiti (il clan degli Assad è sciita alauita,
ndr) hanno avuto dubbi sul legame con Teheran anche in tempi di pace». Rimane il fatto che «è impossibile che Teheran lasci andare al proprio destino la Siria». La guerra di logoramento è lo scenario più drammatico e più probabile ad Aleppo come altrove perché «una rotta totale del regime e la conquista rapida di Aleppo da parte dei ribelli paiono remote». Nel frattempo, i jihadisti dello Stato islamico (Is) sono scomparsi dalle cronache: «Esistono ancora, certo, ma confinati alla valle dell’Eufrate e alle montagne fra Libano e Siria, ricacciati dagli islamisti di al-Nusra in collaborazione con altre forze». Anche gli Hezbollah libanesi, vicini per credo e portafoglio all’Iran, hanno lanciato una campagna primaverile contro i tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi. Il loro contenimento non mette la parola fine al disgregamento del Paese, diviso in quattro parti, controllate rispettivamente da regime, forze ribelli, curdi e Daesh (Is): «Fra gli esperti dell’area si comincia a ipotizzare una soluzione diversa: non necessariamente l’autodeterminazione passa attraverso la secessione – avanza Trentin –. Federazione, confederazione, autonomie locali o regionali sono variabili su cui riflettere». Tutto pur di mantenere l’unità nazionale della Siria e garantire una via democratica alle diverse voci libere, in questo momento zittite dall’orrore della guerra.