Vertice finanziario. Trump cambia clima: al G20 più protezionismo e meno ambiente
Il ministro delle finanze degli Usa, Steven Mnuchin, al G20 in Germania (Ansa)
L’amministrazione Trump non è disposta a rinunciare al suo approccio protezionista, almeno non a parole. Alla riunione dei ministri dell’Economia del G20 che si è chiusa ieri a Baden Baden il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin ha resistito alle pressioni dei colleghi e ha ottenuto due vittorie significative.
La prima è sul clima: la dichiarazione finale dei ministri non fa riferimento all’impegno a finanziare misure contro il cambiamento climatico, come invece i leader avevano promesso dopo la Conferenza di Parigi Cop21 del novembre 2015. Stati Uniti e Arabia Saudita si sono opposti. Trump non ha mai nascosto la sua diffidenza verso il contrasto al riscaldamento globale. Il suo direttore del budget, Mick Mulvaney, giovedì ha dichiarato di considerare il finanziamento a questo tipo di misure «uno spreco di denaro».
La seconda vittoria americana è sul commercio internazionale. Nel comunicato finale del vertice sparisce la tradizionale formula con cui i ministri delle venti economie più importanti del mondo si impegnano a «rifiutare il protezionismo in tutte le sue forme». Una promessa presente nella dichiarazione del primo vertice del G20 — quello che si è tenuto a Washington nel novembre 2008, in una situazione di emergenza economica mondiale — e poi sempre confermata nei dieci appuntamenti successivi. Stavolta invece i ministri si sono limitati a un impegno più blando: «Lavoriamo per rafforzare il contributo del commercio alle nostre economie — hanno scritto nel comunicato finale —. Nella nostra ricerca di crescita economica ci sforzeremo di ridurre gli squilibri globali eccessivi, promuovere maggiori inclusività e giustizia e ridurre l’ineguaglianza».
Sono parole che può condividere anche Donald Trump: il nuovo presidente americano ha incolpato gli eccessi del libero scambio di avere distrutto posti di lavoro in America e ha accusato Germania e Cina per i loro enormi surplus commerciali (rispettivamente 270 e 484 miliardi di dollari nel 2016). Il Giappone a Baden Baden ha appoggiato le posizione degli americani, ma con cautela. «Nessuno ha detto di essere contro il libero scambio» ha puntualizzato comunque il ministro nipponico Taro Aso. Mentre la Cina si è battuta senza successo per confermare l’appoggio dei venti Grandi alla globalizzazione economica. Per i tedeschi essere costretti a digerire questo passo indietro verbale riguardo il libero scambio proprio durante il “loro” G20 è un’evidente sconfitta. Ma il ministro Wolfgang Schäuble non ne ha fatto un dramma: «Abbiamo raggiunto un impasse » ha spiegato, sottolineando che non è ancora chiaro che cosa Mnuchin intenda di preciso quando parla di protezionismo e nemmeno in che cosa consista l’idea di commercio più giusto. «Ma è normale, non deve stupire » ha aggiunto il ministro tedesco: l’amministrazione è nuova e ha bisogno di tempo. «Non potrei essere più felice con il risultato del negoziato » ha detto un esultante Mnuchin.
Da ministro navigato Schäuble sa bene che gli impegni formali del G20 raramente si traducono poi in provvedimenti concreti a livello globale. Sono più che altro linee guida, che spesso non vengono davvero rispettate: per anni le Banche centrali si sono impegnate in una battaglia a colpi di svalutazione delle monete ribadendo però tutte, a ogni vertice del G20, di essere contrarie alle svaluzione competitive. Insomma: di solito al termine dei vertici i vari ministri e capi di governo rientrano in patria e tornano a badare ai loro interessi nazionali.
In questo caso specifico il protezionismo made in Usa è però già di suo un oggetto molto indefinito. «Le politiche protezioniste che Trump ha promesso in campagna elettorale restano vaghe e ancora lontane da ipotesi di applicazione realistiche» conferma Matthew Benkendorf, responsabile della divisione Quality Growth Boutique di Vontobel, società di investimento svizzera che ha in gestione più 200 miliardi di euro di patrimoni. Secondo Benkendorf, che opera tra New York e la Florida, difficilmente Trump potrà concretizzare misure come la border tax, la tassa che favorisce chi esporta e penalizza chi importa: «Un provvedimento del genere danneggerebbe la grande maggioranza delle imprese americane, che infatti la osteggeranno. E parliamo di imprese sane, che creano lavoro e pagano i dipendenti più della media del loro settore, come il gruppo della grande distribuzione Costco. Danneggiare aziende di questo tipo non farebbe altro che distruggere posti di lavoro “buoni”, proprio il contrario di quello che Trump dice di volere fare».