Kabul. Afghanistan, parlano le donne prigioniere dei taleban: ci stanno rubando la vita
I volti di alcune delle centinaia di donne che hanno postato video in solidarietà con le donne afghane
Decine, centinaia di video inondano i social media. Vi compaiono volti scoperti di giovani donne con i capelli sciolti, ma anche profili nascosti sotto i burqa. Continua sul web la mobilitazione di solidarietà per le donne afghane, costrette al silenzio dalla nuova sfilza di divieti approvata dai taleban, che ne cancellano persino la voce in pubblico. Molti video sono accompagnati da pensieri e poesie come questa: «Mi avete imprigionato nella mia casa per il crimine di essere donna. Non mi date acqua e pane, ma solo il silenzio». Lina Rozbih scrive: «Il viso e la voce delle donne sono la loro identità, no alla legge sui vizi e le virtù».
Vahida Amiri le fa eco: «Coloro che dicevano che le manifestanti erano state disperse, ora lo vedono: siamo ovunque, con una sola voce ». Arash Mehrban: «I taleban hanno preso di mira il volto e la voce delle donne per isolarle per sempre». Zahara Haqparasi: «I taleban con il nuovo decreto hanno dimostrato il massimo dell’ignoranza e hanno dato il colpo di grazia alle donne afghane. Ma le donne non si sono zittite».
La decisione dei taleban di mettere al bando la voce delle afghane quasi non sorprende Zahra Joya, fondatrice e direttrice di Rukhshana.com, un’agenzia stampa online che raccoglie notizie sulle donne dell’Afghanistan. «Il divieto di parlare, leggere e cantare in pubblico era in vigore già da tre anni, eseguito a livello locale dall’esercito», spiega l’attivista, 32 anni, originaria di Bamyan, a ovest di Kabul, oggi in esilio a Londra. «Il governo è determinato – aggiunge – a istituzionalizzare l’apartheid di genere che, in maniera sempre più chiara, contraddistingue la sua linea». La stretta, a suo dire, non è solo ideologica. «I taleban hanno paura di perdere di nuovo il potere – argomenta – e di perdere la sfida contro chi si oppone alla loro oppressione anche se, per il momento, senza alcun riconoscimento ». La resistenza pare crescere in maniera quasi proporzionale alla violazione della libertà. «Le donne – sottolinea – vengono private del diritto alla parola, cosa inimmaginabile in tanti altri Paesi musulmani, ma non rinunceranno mai ai propri pensieri. Sceglieranno altri strumenti, per esempio le lettere, per raccontare la propria vita e la realtà in cui vivono».
I video circolati sul web in cui le afghane cantano (non narrano) la protesta contro il bavaglio dei taleban ne sono un esempio. Joya è convinta che anche la sua piattaforma, chiamata Rukhshana in memoria di una teenager lapidata a morte nel 2015 per adulterio, possa aiutarle: «A suo modo rappresenta un rifugio sicuro per chi, seppure in modo anonimo, vuole far sentire la propria voce». Si può fare di più? «È molto importante continuare a esercitare pressione politica sul governo di Kabul – chiede la giornalista – attraverso le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e gli Stati, come Pakistan, Arabia Saudita e Qatar, che hanno una relazione molto stretta con i taleban».
Almeno fino a ieri, quando Kabul ha deciso di troncare i rapporti con la missione dell’Onu in Afghanistan. Ma i talebani, aggiunge, «continuano a inseguire il riconoscimento della comunità mondiale che gli darebbe ulteriore legittimità. Impedirgli, per esempio, di viaggiare sarebbe un segnale, forte e chiaro, che è necessario cambiare».
La legge promulgata il 31 luglio ed entrata in vigore pochi giorni fa si compone di 35 articoli è stata approvata dalla guida suprema dei talebani, l'invisibile emiro Hibatullah Akhundzada, che governa l’Afghanistan per decreto dalla sua roccaforte di Kandahar. Ma è il potente Ministero della Propagazione della virtù e della prevenzione del vizio a esserne responsabile dell’attuazione. E lo fa diligentemente, con i suoi ispettori e agenti, creando un clima di paura e intimidazione tra gli afghani e soprattutto tra le afghane. «Le donne devono coprire completamente il corpo in presenza di uomini che non appartengono alla loro famiglia», recita uno degli articoli, così come il viso «per evitare tentazioni». Lo stesso vale se «le donne devono uscire di casa per necessità ». Inoltre, le donne non devono far sentire la propria voce in pubblico, cantando o recitando poesie. Nei giorni successivi alla promulgazione della legge per la Prevenzione del vizio e la propagazione della virtù, nelle città i controlli si sono fatti asfissianti.
Lo racconta da una città afghana ad Avvenire, l’insegnante di una scuola segreta, Fatima F., raccolta dall'associazione Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), attiva fin dal 1999 nel sostegno ai progetti di istruzione delle ragazze. «C’è tanta paura, le ragazze possono essere fermate per strada e possono farti mille domande, perché sei sola, perché non c’è tuo marito con te. Ma nonostante i rischi che corrono, continuano a venire ogni giorno. Per imparare, per respirare, per parlare».
Raggiunta con una chiamata su Whatsapp, racconta le sue giornate anche Aisha P. (nome di fantasia per ragioni di sicurezza), una delle donne che ha potuto ripartire con una sua attività (tra le poche consentite) grazie ai corsi di microimprenditoria della ong italiana Nove Caring Humans. La sua voce è spesso interrotta dal pianto. «La legge non ci ha sorpreso, sapevamo che presto sarebbe arrivata. Ogni giorno sperimentiamo restrizioni più severe. Certe volte mi chiedo cosa succederà domani e provo un grande dolore». Aisha ha subìto molti più controlli nei giorni successivi all’approvazione della legge: «Ieri per la prima volta – racconta la giovane donna in un inglese perfetto – non ho potuto andare a lavorare. Il mio autista non ha voluto portarmi in ufficio perché la nuova legge lo proibisce se la donna è sola, senza un mahram, un accompagnatore maschio di famiglia. Mi sono molto seccata con lui, ma mi risposto che non vuole accollarsi il rischio di essere picchiato. Io non ho mahram, non ho nessuno. Ho un cugino ma è troppo piccolo. Mio padre è medico, è molto impegnato e può accompagnarmi solo una volta alla settimana. Come farò a mantenere il mio lavoro? Non lo so, lavorare è una sfida troppo grande. Devo trovare un mahram, poi se mi fermano spiegherò che non è un parente perché non ne ho. E spero che non mi succeda nulla».
Aisha ha già sperimentato la diligenza dei taleban nell’applicazione delle nuove norme. «Il nostro mondo è al maschile. Quando mi muovo per la città, sono circondata da uomini. Ma oggi è stato più strano del solito: sono andata al mercato e tutti erano spaventati, c’erano taleban dovunque. Una persona del ministero del Vizio e delle virtù ha controllato come ero vestita, ma io ero a posto. Mi sono sentita in pericolo, spaventata, perché sei sempre in balia degli altri. Stanno rubando la nostra vita, sento di vivere in una prigione. C’è qualcosa nel mio cuore che mi fa male, sempre, mi accompagna un dolore sordo per ciò che sta succedendo».
E non c’è solo l’oppressione delle donne, a preoccupare la giovane: «La situazione qui in Afghanistan è gravissima, la povertà è dovunque, la gente non ha cibo, non ha acqua. I taleban non fanno nulla per i poveri, né per migliorare la situazione economica. Ma si accaniscono sulle donne, sembra che l’unico problema al mondo sia quello di controllare tutto ciò che ci riguarda». Esiste la possibilità di resistere, di protestare? «Ci sono tipi diversi di protesta: c’è chi come me resiste cercando di portare avanti il proprio lavoro, anche se è disperata per ciò che accade intorno a lei e vorrebbe soltanto piangere. C’è poi chi protesta andando in giro con il velo fuori posto o con vestiti non conformi alle leggi dei taleban, per provocarne la reazione. Le più coraggiose scendono in piazza con cartelli e striscioni per l’istruzione femminile, ma è sempre più raro perché ci sono stati incidenti, le donne sono state portate in carcere e sappiamo che lì sono sottoposte a torture e violenze. Alcune postano video sui social media, ma protestare fisicamente ormai è impossibile».
Cosa chiedi al mondo, Aisha? «Chiedo di non lasciarci sole. Da tre anni le ragazze non vanno a scuola. Il mondo deve capire che un paese in cui metà della popolazione è chiuso in casa non ha futuro. E poi bisogna ragionare seriamente sugli aiuti economici che arrivano dall’estero: in parte vanno alla gente, sì, ma c’è corruzione, mancanza di trasparenza. E i taleban si dimenticano delle donne».