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I dimenticati. L'agonia di Haiti, contesa tra le gang. E i caschi blu possono aspettare

Rachele Callegari venerdì 1 dicembre 2023

La marcia della gang G9 che comanda Port-au-Prince

Succede che una banda armata ha circondato un ospedale di Port-au-Prince, capitale di Haiti, due settimane fa. Succede che i ribelli hanno bruciato le case di chi vive attorno a quel centro ospedaliero, impedendo a chi ci abitava di andarsene. Succede che queste gang armate, oltre 200 in città, hanno ormai preso il controllo dell’intero territorio con violenze, rapine e omicidi. Succede, anche, che nessuno ne parla e che l’invio dei caschi blu dell’Onu, ufficialmente annunciato, è finito al fondo nella lista delle priorità internazionali. Episodi come quello dell’assalto all’ospedale Fontaine sono all’ordine del giorno ad Haiti. In una capitale in cui il premier Ariel Henry non è mai stato eletto ma ha semplicemente “sostituito” il presidente Jovenal Moïse ucciso da una congiura di palazzo, le bande armate controllano l'80% del territorio, oltre che le vite dei quattro milioni di abitanti. E lo fanno con soprusi, intimidazioni e sequestri, dividendosi le zone di competenza e sparando a chi attraversa dove non avrebbe dovuto.

In questa cornice, l’assalto al centro ospedaliero pare normalità: solo l’intervento della polizia ha permesso l’evacuazione dei pazienti, 70 adulti e 40 bambini, che sono stati trasferiti in una casa privata.

Jose Olís, fondatore e direttore dell’ospedale, ha indicato come responsabili dell’assalto i membri di una banda di Brooklyn (che è un isolato di Port-au-Prince) guidata da Gabriel Jean-Pierre, noto come “T-Gabriel”.

In questo contesto, le organizzazioni umanitarie sul territorio sono il più significativo termometro di quello che succede. Fra queste c’è Avsi, una onlus non profit che dal 1999 è presenza costante nel territorio di Haiti. Fiammetta Cappellini, da vent’anni ad Haiti, sottolinea come dal 2018 la crisi sia sempre più drammatica: «Oltre metà della popolazione non ha di che sfamarsi, ovunque mancano i servizi di base e la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno. La comunità internazionale deve tornare a porre la sua attenzione verso Haiti: sappiamo che le crisi in tutto il mondo sono tante ma questo non giustifica il totale disinteresse di questi ultimi anni». E poi aggiunge: «Spesso sentiamo dire che la crisi di Haiti dura da troppo tempo e ormai ha stancato: è inaccettabile. Servono attenzione, accompagnamento, finanziamenti e interventi per lo sviluppo. Solo così la popolazione potrà risollevarsi». Lunedì scorso, Avsi ha organizzato l’evento “Haiti: intervenire subito per uscire dalla crisi. Proposte concrete dal terreno” al Parlamento Europeo, per riportare l’attenzione su questo fronte aperto ma molto spesso messo in ombra da altre crisi internazionali. Fra i dati ne emerge uno molto significativo: lo Stato infatti si classifica al 170° posto su 189 Paesi nella scala dell’indice di sviluppo umano di Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo).

La crisi investe ogni aspetto della vita della popolazione haitiana, a partire dalla sicurezza. La stessa comunità internazionale sta riducendo la sua presenza sul territorio, il che comporta una netta diminuzione dei servizi per la popolazione. Ad oggi quasi 5 milioni di persone vivono in condizioni di insicurezza alimentare e la mancanza di politiche di rilancio economico sta generando tassi di disoccupazione sempre più alti.

È stata annunciata di recente una missione militare internazionale guidata dall’Onu: ancora non sono chiari i dettagli e le tempistiche ma potrebbe essere un primo passo verso la risoluzione della crisi. «Sappiamo tutti che questa non sarà la soluzione definitiva, speriamo però che possa rappresentare l’inizio di una nuova fase» conclude Fiammetta Cappellini.