«Le tasse sono una cosa bellissima, un modo civilissimo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili quali istruzione, sicurezza, ambiente e salute». Per un simile commento, Tommaso Padoa-Schioppa venne subissato di critiche. Ebbene, ad analizzare i dati di un recente studio si può ben dire che l’allora ministro dell’Economia italiano avrebbe goduto di maggiore popolarità in Africa, continente che vede ormai la maggiore crescita a livello mondiale, con il Pil medio che è destinato a salire del 6% nel prossimo decennio. La maggioranza degli africani (per l’esattezza il 52%) è infatti favorevole a pagare anche tasse più alte di quelle attualmente in vigore. E questo perché i cittadini potrebbero avere in cambio servizi migliori, a partire da sanità e scuola. Non solo: ben il 66% degli africani (con punte dell’85% in Ghana e Costa d’Avorio) è convinto che proprio le tasse siano un vero e proprio motore di sviluppo per i loro Paesi. Solo un africano su tre, invece, preferirebbe avere minori servizi in cambio di un alleggerimento delle aliquote fiscali. Metà degli intervistati ritiene inoltre che non pagare le tasse sia sbagliato e che chi evade andrebbe severamente punito. Il risvolto di questo studio condotto per due anni in 29 Paesi del continente da Afrobarometer – progetto di ricerca indipendente – va a toccare però uno dei problemi an- cora “strutturali” in molti Paesi africani, e cioè la corruzione e la cattiva governance. Più di un terzo degli intervistati, infatti, pensa che la «maggior parte» o «tutti» i funzionari del fisco siano corrotti, e un altro 39% pensa che lo siano almeno in parte, con Camerun, Nigeria e Sierra Leone a guidare questa poco onorevole graduatoria. «La mancanza di fiducia nella condotta dei funzionari del fisco è alla base della tolleranza per l’evasione e dell’inadempienza con gli obblighi fiscali», sottolinea il rapporto. Il 62% degli intervistati, inoltre, ritiene arduo capire quante tasse debba pagare, mentre ben il 76% (dato che supera l’85% in Burundi, Tanzania e Guinea) sostiene sia difficile comprendere come il loro governo usi le entrate fiscali. Lo studio ribadisce quindi la necessità di maggiore trasparenza da parte delle autorità africane, nonché l’esigenza di obbligare le autorità stesse a rispondere della gestione del gettito. Un obiettivo difficile in un continente in cui sono molti ancora i governi dittatoriali, ma anche lì dove vige formalmente la democrazia è spesso solo la classe dirigente a godere dei frutti della crescita economica. Basta guardare alla classifica annuale stilata da Transparency International: tra i primi 25 Paesi al mondo con il maggiore indice di «corruzione percepita » ben la metà sono africani. La mobilitazione di risorse attraverso la tassazione resta una delle priorità per l’agenda di sviluppo del continente africano, che sta peraltro godendo di un vero boom degli investimenti stranieri diretti, passati dai 15 miliardi di dollari del 2002 ai 46 miliardi del 2012. Per molti Paesi del continente, il gettito fiscale è ancora lontano dai bisogni di spesa del settore pubblico. Tra il 2000 e il 2010 le entrate fiscali hanno raggiunto una media pari al 24% del Pil, con un picco del 28% nel 2008. Se il dato viene paragonato con quello relativo ai Paesi dell’Ocse (33,8% nel 2010) è evidente come ci sia ancora spazio in Africa per espandere il gettito. Per colmare il gap, molti Paesi hanno dovuto finora dipendere dagli aiuti stranieri, ma la crescente domanda di servizi – causata anche dall’emergere di una classe media con maggiori possibilità di consumo – sembra suggerire ampie riforme fiscali, a condizione però di una maggiore trasparenza.