Afghanistan. Le vite sconvolte di chi non è riuscito a scappare
Bashra significa “buon augurio”, proprio quel che occorre alle donne di Kabul in queste ore, alle donne rimaste, a quelle che non hanno neanche intrapreso la grande fuga verso l’aeroporto domenica sera. Bashra ha tutta la sua vita lì, una giovane vita di quarantenne, che ha visto, in parte, migliorati i diritti delle donne negli ultimi anni, per vedersi crollare tutto addosso in questo fine settimana d’agosto. Anche lei ora ha bisogno di protezione, ha bisogno che il suo cognome non si conosca ed è per questo che le volontarie di Pangea le suggeriscono di bruciare i documenti, affinché non la si ‘assegni’ a nessun uomo né si conosca la sua vera identità di volontaria infermiera a favore delle giovani vittime di stupri. Bashra ha coraggio da sempre, perché, “in Afghanistan il coraggio è sempre stato un dovere, sin da quando la mattina ci si svegliava sotto il suono delle bombe. Non abbiamo mai conosciuto una vita diversa, una vita autenticamente pacifica. Qui da noi è una lotta, ma non avremmo mai immaginato di restare senza lo sguardo dell’Occidente. Questa macchia l’America non la toglierà su stessa per anni”.
Asadullah, parlando con i giornalisti della BBC, racconta di essere un venditore ambulante di 35 anni della provincia di Kunduz. Si era recato a Kabul con sua moglie e le due giovani figlie all'inizio di questa settimana, dopo che i talebani avevano dato fuoco alla sua casa. Era convinto di trovare riparo nella capitale, era convinto che quella grande città non si potesse espugnare così facilmente. "Ero un lavoratore di strada, vendevo cibo e spezie... Ma quando i talebani hanno attaccato la mia provincia, siamo venuti di notte a Kabul, nella certezza di esser più protetti. Ora non abbiamo soldi per comprare il pane, o per prendere delle medicine per mio figlio, che ha una severa patologia congenita. Non abbiamo provato a fuggire da qui, eravamo troppo stanchi per lasciare anche Kabul, troppo delusi nel vedere che il presidente è fuggito via, senza alcuna resistenza. Abbiamo capito che non c’è più niente da fare. Dobbiamo solo proteggerci con quel che abbiamo”.
E non manca chi continua a prestare il suo aiuto in favore di chi resta. Ricordo i medici di Emergency. Rossella Miccio, presidente del gruppo, precisa che restare lì è di grande aiuto per effettuare piccoli interventi o parti cesarei: “Era la fine del 2001 quando abbiamo deciso di aprire una maternità nel Panshir, una valle bellissima, ma molto chiusa, una delle poche aree del Paese che i Talebani non erano mai riusciti a conquistare. Non per questo la condizione femminile era meno difficile. In tantissimi ci hanno detto che eravamo dei pazzi. Effettivamente qualche dubbio o abbiamo avuto anche noi, ma l’incontro con donne forti, l’enormità dei bisogni, la credibilità che il nostro lavoro ci aveva fatto guadagnare, nelle comunità locali, ci hanno reso ancora più determinati nel portare avanti questo progetto ambizioso”. Ora Emergency, con la stessa voglia, o con la stessa ‘pazzia’ di allora, resta a Kabul per effettuare alcune prestazioni necessarie per le donne in gravidanza. Il reparto di maternità ha assoluta necessità di restare aperto.