BRACCIO DI FERRO. Afghanistan, transizione scommessa del futuro
È la transizione politica, dall’era dominata da Karzai a quella in cui l’attuale presidente dovrà necessariamente farsi da parte dopo, con le elezioni della prossima primavera, a rappresentare la maggiore incognita che pesa sul futuro dell’Afghanistan.La transizione della responsabilità per la sicurezza del Paese dalle forze di Isaf (International Security Assistance Force) a quelle nazionali afghane (esercito e polizia) è ormai in gran parte completata. Soprattutto l’esercito, forte di 180.000 uomini, ha raggiunto un grado di operatività più che soddisfacente e svolge la quasi totalità delle operazioni. Da questo punto l’azione di Isaf, da anni concentrata sul mentoring e il support(l’istruzione e il sostegno) delle forze nazionali può essere considerata un successo e il ritiro delle truppe internazionali, che si concluderà entro il dicembre 2015 ed è già decisamente a buon punto, lascia alle sue spalle una situazione significativamente cambiata. Eppure questo importante risultato potrebbe essere vanificato dal processo elettorale che porterà alla successione di Karzai. Come sottolinea l’ambasciatore Mauritius Jochems, Senior Civilian Representative di Isaf, «è necessario che le prossime elezioni, in programma il 5 aprile 2014, siano giudicate trasparenti e corrette; ma è altrettanto fondamentale che il loro risultato, qualunque esso sia, venga accettato come legittimo da tutti gli attori in campo». Compreso Karzai, evidentemente, che seppure non possa più candidarsi per un nuovo mandato, esercita comunque un’influenza decisiva su tutte le istituzioni e sull’intera vita politica del Paese.La Costituzione dell’Afghanistan, infatti – e la prassi di questi anni che ha fatto di Karzai prima il pivot per l’intera comunità internazionale, poi il suo ingombrante e imprescindibile interlocutore – assegna al presidente un potere enorme: dalla nomina dei ministri a quella dei governatori provinciali a quella di tutti i funzionari e degli alti gradi delle forze di sicurezza. Sono lontani gli anni tra il 2008 e il 2009 in cui Karzai era definito sprezzantemente «il sindaco di Kabul».
Oggi la supremazia del centro sulla periferia non è solo scritta nella Costituzione del Paese, ma è determinata anche dalla capacità della presidenza, dei suoi uffici, dei suoi ministri e dei suoi governatori di controllare la totalità dei budget di spesa, indirizzandone i flussi verso amici e sostenitori, e comunque secondo logiche di convenienza politica. Karzai avrebbe potuto svolgere una funzione di <+corsivo>king maker<+tondo>, dando la sua investitura al più forte dei candidati pashtun (la sua etnia e quella di gran parte degli insorgenti) ma, al contrario, ha preferito boicottarlo, con il risultato che a ricoprire la carica più importante del Paese potrebbe essere un (mezzo) tagico – Abdallah Abdallah – e non un pashtun come è sempre stato negli ultimi secoli. I giochi sono ancora aperti, evidentemente, ma questo è un ulteriore elemento che agita un quadro politico già peraltro teso dal braccio di ferro tra Karzai e gli Stati Uniti circa lo status dei soldati americani (e di conseguenza dell’intera coalizione) che dovrebbero restare in Afghanistan dopo il 2015 e del quale le tensioni di questi giorni tra Karzai e la Loya Jirga rappresentano solo l’ultimo, non conclusivo, atto.Se questo non verrà raggiunto, sarà semplicemente impossibile l’avvio della nuova missione “Resolution Support”, volta a garantire il proseguimento delle attività di mentoring (un contingente variabile tra gli 8.000 e i 20.000 uomini, del quale l’Italia sarebbe uno dei principali contributori). Karzai nicchia; ma è consapevole che, se l’accordo non verrà firmato, rischia anche di saltare l’imponente piano di aiuti economici che i Paesi donatori si sono impegnati a fornire per il prossimo decennio.