Afghanistan, reportage. L'orologio dei taleban non può riportare indietro la Storia
Il vice console Tommaso Claudi all'aeroporto di Kabul aiuta i civili durante l'evacuazione
Il velo le si arrotola sulle spalle mentre scende le scale. «Non ho ancora capito come metterlo», dice la figura esile, in inglese. Poi, rivolgendosi a chi l’ha preceduta al piano di sotto, cambia bruscamente lingua e aggiunge in italiano: «Arrivo subito». Treccia castana, pantaloni militari e zainetto, la donna è arrivata il giorno precedente. A bordo di due van fuoristrada, quattordici connazionali sono a metà del giro turistico di tre settimane per l’Afghanistan. «Siamo un gruppo di amici di varie parti della Penisola. Ogni anno scegliamo una meta poco battuta e ci organizziamo. Stavolta ci siamo detti, perché non l’Afghanistan? Così abbiamo studiato un po’ la situazione, ci siamo informati e ovviamente abbiamo reclutato una guida locale», racconta la quarantenne. Sotto il tetto di legno del ristorante ampio e spartano dell’hotel Noor Band Qala di Bamyan ci sono altri stranieri: una coppia cinese e due indiani. La curiosità generale, però, si concentra sulla “comitiva degli italiani”. La popolare testata online Ariana News ha addirittura dedicato un lungo articolo al suo viaggio tra Kabul, Herat, Bamyan e Balkh. Nel testo si sottolinea l’entusiasmo degli stranieri per il Paese, cordiale e “sicuro”.
Parola quest’ultima cruciale: l’Emirato islamico dell’Afghanistan non perde occasione di ricordare di avere messo fine a oltre mezzo secolo di guerra. Il prossimo 15 agosto saranno trascorsi due anni esatti dal fulmineo ritorno al vertice dei taleban dopo il ritiro delle forze occidentali con gli Usa in testa. Le immagini di quei giorni caotici, con la ressa all’aeroporto della capitale e le persone aggrappate alle ali degli aerei per fuggire, sono impresse in modo indelebile nella memoria collettiva. Per oltre una settimana, il vice console italiano, Tommaso Claudi, è stato all’interno dello scalo nel disperato intento di aiutare le persone ad alto rischio segnate nelle liste a oltrepassare la barriera umana. Eppure, solo lo scorso 30 giugno il dipartimento di Stato ha ammesso gli errori delle amministrazioni Trump, prima, e Biden, poi, nell’ideare e nell’attuare smobilitazione e “exit strategy”.
Lungo la Wardak road, le carcasse delle guardiole dei check-point carbonizzate ricordano la marcia dal nord verso la capitale degli ex studenti coranici. I turisti fanno il percorso inverso per raggiungere la principale attrazione del Paese. Bamyan, appunto, incastonata tra le montagne perennemente innevate dove, nel sesto secolo, gli abitanti realizzarono due mastodontici Buddha di pietra. È rimasto solo un pezzo di gamba a testimoniare il capolavoro distrutto con una carica di dinamite dai taleban nel primo regime, il 2 marzo 2001. Ora sono guardie degli ex studenti coranici a vigilare sul via vai di visitatori dal gabbiotto dove svetta la bandiera bianca dell’Emirato. E a incassare i soldi dei biglietti. Con l’interruzione del flusso di aiuti internazionali e l’economia in apnea, tutto fa cassa. Il flusso è in gran parte interno ma ci sono anche decine stranieri. Quasi 300 – provenienti da Europa, Asia e America – solo tra marzo e aprile, secondo l’ufficio turistico. Numeri piccoli che però segnalano un’inversione di rotta rispetto al passato recente. Durante il governo repubblicano, artefice del recupero di quel che restava dei Buddha, di turisti quasi non ce ne erano. Per raggiungere Bamyan dalla capitale è necessario attraversare la provincia di Maidan Wardak, una delle roccheforti degli allora insorti taleban, in agguato per colpire i convogli occidentali o delle alleate forze locali. «Hanno dovuto costruire un piccolo aeroporto perché il percorso via terra era troppo pericoloso. La strada era perennemente deserta. E guarda ora, c’è perfino traffico», dice Munir mentre indica le auto in transito.
Il traffico, diurno e notturno, dentro e fuori le città, è, insieme all’accenno di turismo, un altro effetto collaterale del miglioramento delle condizioni di sicurezza. L’opposizione armata con base in Panshir è ridotta ai minimi termini. Il braccio locale del Daesh – il Daesh-K – rivale dei taleban per la guida della galassia fondamentalista, resta una minaccia. Ma la sua forza diminuisce. Tra febbraio e maggio, la missione Onu nel Paese (Unama) ha registrato 11 attacchi, contro i 62 dello stesso periodo del 2022.
Quella ottenuta dai taleban è, però, una pace asfissiante. Il peso maggiore ricade sulle spalle delle donne, cancellate letteralmente dalla vita civile, politica e, in misura crescente, sociale ed economica. Dopo averle espulse dal settore pubblico, dalle Ong, dagli esercizi a contatto col pubblico, la settimana scorsa sono stati chiusi perfino i saloni di parrucchiere ed estetiste, attività in cui si erano rifugiate molte disoccupate.
Leleh era appena riuscita a trovare lavoro in un centro di Kabul dopo il corso avviato da Nove onlus con il sostegno del Programma alimentare mondiale, quando è arrivato il divieto. «Come farà la mia famiglia a vivere ora? Siamo in 8 e il mio era l’unico stipendio. Stanno distruggendo la vita di tutti, non solo delle donne...» Anche gli uomini devono sottostare alle decisioni di un governo che non contempla il dissenso Nei primi tre mesi dell’anno, Unama ha denunciato dieci esecuzioni extragiudiziali, 190 arresti arbitrari e 20 casi di tortura. Ogni settimana, nuovi decreti comprimono ulteriormente le libertà individuali: oltre al divieto di musica, cinema e teatro e al rigido codice di abbigliamento, non è più consentito celebrare il giorno di San Valentino, il Capodanno persiano né ballare ai matrimoni, seppure separati per genere. Sono tornate di moda le punizioni corporali pubbliche, legali anche durante la Repubblica benché rare. Fino al 30 aprile scorso, i tribunali le avevano inflitte a 387 persone, di cui 307 uomini e 80 donne; quattro erano bambini. Il ricorso da parte dei giudici a fustigazioni e amputazioni s’è intensificato, inoltre, dallo scorso 13 novembre, previo “incoraggiamento” del leader supremo, l’emiro Hibatullah Akhundzada, via Twitter. Il 7 dicembre c’è stata la prima esecuzione pubblica a Farah di un condannato per omicidio, seguita da un’altra il 20 giugno a Laghman. Contrariamente a quanto disse un detenuto a Guantanamo durante un interrogatorio – «Voi avete gli orologi, noi il tempo» –, tuttavia, una parte del movimento taleban si è reso conto di non possedere le lancette della storia. E di non poter far tornare il Paese al 2001.
Vent’anni di presenza occidentale hanno lasciato il segno, almeno nelle città. Non solo nell’architettura quanto, soprattutto, nella generazione nata e cresciuta negli ultimi 25, oltre il 63 per cento del totale. Sanno come funziona fuori e Internet – che l’Emirato non può bloccare – glielo ricorda. I «taleban pragmatici», come li chiamano, si concentrano «sull’essenziale» – il controllo politico e militare –, mentre sono disposti a chiudere un occhio sui decreti più odiosi per la popolazione: il loro ideale è più Teheran che la Kabul del Mullah Omar. L’ala ultrà, il cosiddetto gruppo di Kandahar, rappresentato dall’emiro, è determinata al pugno di ferro. Il risultato è un sistema schizofrenico di bandi sempre più rigidi, applicati, però, a macchia di leopardo. In questa altalena di aperture e chiusure, repressione spietata e oasi di libertà, si gioca il presente dell’Emirato. Come il fronte pragmatico dei taleban sa bene, il basso profilo consente di eludere con facilità lo sguardo della comunità internazionale, ormai disinteressata al dossier afghano. Al di là della retorica, questa, del resto, non sembra avere una strategia diplomatica nei confronti di questo, come di altri Paesi. Quaranta milioni di afghane e afghani, nel frattempo, cercano di resistere, come possono, prendendosi ogni millimetro di spazio a portata di mano. Stavolta sembrano essere i taleban ad avere gli orologi e loro il tempo.
4. Fine.Le puntate precedenti sono state pubblicate il 29 giugno, 2 e 10 luglio