Il generale David Petraeus che “frena”, il ministro della Difesa Robert Gates che “accelera”. E il presidente Obama che chiude il “contenzioso”: «La data del primo luglio 2011 per l’inizio del ritiro degli Usa dall’Afghanistan non è negoziabile». La trappola afghana – con il numero di soldati stranieri uccisi che ha superato l’ennesima soglia simbolica: 2mila, 1.226 dei quali americani – sembra avvolta in un intrico di scadenze, una ragnatela dentro la quale si gioca l’esito di una guerra lunga ormai nove anni. La data dell’inizio del ritiro Usa non si tocca, «è scolpita nella pietra», ha fatto sapere il ministro della Difesa, spalleggiato poi dal presidente in persona. Ma quella scadenza sembra piacere poco al comandante delle forze alleate in Afghanistan, che in una serie di interviste rilasciate domenica, l’ha definita «prematura» e «non obbligata». Il generale ha anche aperto ai taleban: il dialogo, ha spiegato all’emittente
Nbc, sarà possibile anche con chi ha «le mani coperte di sangue».Un’uscita poco diplomatica del “navigato” Petraeus, l’uomo che al fianco di Bush ha stabilizzato l’Iraq? Difficile crederlo. Anche perché di interviste il generale non ne ha concessa una, ma più di una. Tanto che il
New York Times ha parlato di una vera e propria «campagna». Un’offensiva mediatica per convincere l’opinione pubblica – e il presidente – che la scelta di ritirarsi dal Paese «dipende dalle condizioni sul terreno». Un’uscita dirompente che ha chiamato in causa direttamente il ministro della Difesa (che proprio ieri ha annunciato le sue dimissioni nel 2011): «Non c’è nessun dubbio: inizieremo il ritiro delle truppe nel luglio 2011», ha contrattaccato Gates. Quello che è certo è che saranno mesi decisivi. A settembre ci saranno le elezioni legislative in Afghanistan: circa 2mila candidati correranno per 240 posti in Parlamento. Ma l’allarme sicurezza – saranno seimila i seggi disseminati nel Paese – è già alto: due candidati sono stati uccisi, tre rapiti, dieci minacciati di morte. Poi c’è il voto di novembre negli Stati Uniti, con il dossier “guerra in Afghanistan” che rischia di diventare un boomerang per Obama e creare problemi di disaffezione con la sua base. Lo staff del presidente spera nel “tradizionale” rallentamento delle operazioni di guerra che avviene puntuale a causa dell’inverno. A dicembre, infine, lo stesso Obama ha promesso che ci sarà una verifica «strategica» sull’andamento del conflitto.Il presidente Hamid Karzai ha intanto firmato il decreto che prevede lo scioglimento per la fine dell'anno di tutte le compagnie private di sicurezza che operano nel Paese, motivato con la necessità di «meglio difendere i cittadini, combattere la corruzione, impedire irregolarità e un uso improprio delle armi». I contractor – finiti più volte nell’occhio del ciclone per l’“allergia” alle regole – sono un vero e proprio esercito parallelo operante sul teatro di guerra: più di 50 società, metà afghane e metà internazionali, impiegano dai 30mila ai 40mila soldati armati (perlopiù afghani) che lavorano con le forze internazionali, il Pentagono, l’Onu, ma anche le società incaricate di gestire gli aiuti internazionali, le Ong e i media occidentali. Karzai accusa queste società di essere una duplicazione delle forze di sicurezza e di far sprecare risorse preziose necessarie per la formazione dell’esercito e della polizia afghani.Infine i taleban. Con una «mossa a sorpresa», hanno proposto la creazione di un comitato congiunto con responsabili dell’Onu e della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza per indagare sulle vittime civili del conflitto in corso nel Paese. In una risposta pubblicata sulla loro pagina Web alle statistiche diffuse giorni fa dalla rappresentanza Onu in Afghanistan secondo cui i tre quarti delle vittime civili sono dovute agli insorti, un portavoce, Zabihullah Muhajid, ha respinto la responsabilità e ha avanzato la proposta di costituire l’organismo che «dovrebbe avere la libertà di muoversi nelle aree colpite».