Il dramma dei rifiutati. Adozioni, il «mercato» dei bimbi negli Stati Uniti
Sbarazzarsi di un bambino negli Stati Uniti è incredibilmente facile. Trovare dei nuovi genitori? Un po’ meno. È per questo che Michael, 14 anni, ha deciso di coprire l’acne sul mento e sulla fronte con uno strato di fondotinta prima di sfilare di fronte a una trentina di adulti, fra i quali potrebbe esserci la sua potenziale nuova madre. Ed è per questo che Alicia, 12 anni, ha portato allo stand dell’agenzia di adozioni i suoi migliori disegni e tutte le sue pagelle, che aspetta di mostrare, mordendosi le unghie dipinte di rosa, alla possibile nuova famiglia. Siamo ad Asheville, in North Carolina, nei locali di un centro comunitario dove si sta svolgendo un evento di rehoming (ricollocamento). Qui una dozzina di bambini come Michael e Alicia, che sono stati adottati e poi di nuovo respinti, hanno la possibilità di farsi scegliere ancora, prima di diventare troppo grandi e di perdere per sempre l’opportunità di sentirsi, una volta per tutte, a casa. Negli Stati Uniti quasi un bambino su cinque viene cacciato dagli adulti che l’hanno legalmente fatto diventare loro figlio.
Succede dalle 25mila alle 30mila volte l’anno stando al governo americano, che stima che fra «il 10 e il 25 percento delle adozioni falliscono». Una percentuale che sale al 30 per cento per quelle internazionali. Le ragioni citate dalle agenzie governative sono sempre le stesse. E per lo più banali. Mamma e papà non si erano resi conto delle difficoltà di farsi carico di un bambino con un passato difficile. Oppure mettono al mondo un paio di figli biologici e all’improvviso si accorgono che quel bambino “non loro” è di troppo. O semplicemente, «qualcosa non funziona fra di noi». Per molti di loro, la soluzione è semplice: liberarsi del problema, con un annuncio su internet o presso una delle dieci agenzie statunitensi che si spartiscono il mercato del bambino d’occasione. Un fiume di transazioni umane che fino a una decina di anni fa era del tutto sotterraneo ma che è emerso grazie alle reti sociali. A rendere questi scambi di minori possibile non sono le leggi americane, quanto una mancanza di regolamentazioni e la frammentazione del panorama legale fra Stato e Stato.
Se le adozioni ufficialmente devono essere gestite dai tribunali e l’idoneità dei futuri genitori va verificata dai servizi sociali, esistono modi per aggirare i controlli. I bambini possono essere inviati rapidamente a una nuova famiglia semplicemente con la firma di una “procura”, una dichiarazione autenticata che dichiara il bambino come affidato alle cure di un altro adulto. Questa flessibilità era stata pensata per permettere ai genitori che hanno difficoltà temporanee di mandare i propri figli a vivere per qualche tempo presso un parente di fiducia. Ma è una scappatoia che mette le famiglie in condizione di trovare estranei disposti a togliere loro di torno dei figli non più desiderati. Con una procura, i nuovi tutori sono in grado di iscrivere un bambino a scuola o di ottenere sussidi statali, senza l’intrusione delle autorità di assistenza ai minori. Facebook e molti gruppi Yahoo hanno reso la cessione di bambini adottivi – che speso comporta un passaggio di denaro – ancora più facile e veloce. Su un sito di rehoming, ad esempio, si trova Noralyn. Ha 13 anni ed era stata adottata da una famiglia che aveva già due figli. I genitori sono avanti con gli anni e lei, si legge nell’annuncio, se ne prende cura, così come dei suoi fratelli. Noralyn, prosegue il suo dossier è «pragmatica e compassionevole. Sa cucinare, è in grado di preparare piccoli piatti da sola. È gentile, dolce e sa aiutare gli anziani e i disabili. Fa di tutto per rendersi utile e farsi voler bene. Non è timida ed è brava in disegno. È sana e in forma. Ha una buona igiene personale».
Perché improvvisamente è di troppo? «Non ci siamo trovati bene, non faceva per noi, non è colpa di nessuno», spiegano brevemente mamma e papà, contattati via email. È un motivo usato spesso dai genitori che rinunciano alle loro responsabilità. Lo stesso che si trova frequentemente citato, con una similitudine che fa rabbrividire, sui siti che cercano un nuovo padrone per un cane o un gatto, per i quali, appunto, è stato coniato il termine rehoming. Sullo stesso sito c’è Priya. Ha 10 anni, è stata adottata da un Paese africano che non viene precisato. «È tranquilla – si scopre con un click – una buona osservatrice, intelligente, una gran lavoratrice, rispettosa e carina. Le piace fare delle torte e ha delle maniere impeccabili. Ha voti eccezionali ed è una perfezionista. È molto seria». Bambini come lei, venuti dall’estero, sono ancora più suscettibili ad essere ri-adottati, perché nessuna autorità americana monitora quello che accade quando un minore è portato negli Stati Uniti dai suoi nuovi genitori. Una volta inseriti nella nuova famiglia, i piccoli adottati all’estero non sono seguiti dai servizi sociali, ai quali non sono mai stati affidati. Spesso non sono ancora americani. E basta cambiare Stato perché il tribunale che ha autorizzato l’adozione non se ne occupi più. Non c’è alcuna trasmissione di dossier da Stato a Stato.
E successo a Michael, che al centro comunitario della North Carolina sperava di incontrare la sua terza famiglia. È arrivato da Haiti quando aveva sei anni, insieme alla sorellina biologica di quattro. I due sono approdati in Pennsylvania, e ogni volta che hanno cambiato casa hanno anche cambiato Stato. La coppia che i fratellini aveva cominciato a chiamare mamma e papà aveva dei problemi di alcool. Michael si è rivelato meno docile del previsto e lui e la sorellina sono stati messi alla porta. Hanno trovato famiglie diverse e non si vedono da quattro anni. Michael respira profondamente prima di lanciarsi su un tappeto rosso steso fra due file di sedie. Gli adulti applaudono, scattano foto, si scambiano commenti, consultano la cartelletta che hanno ricevuto dall’agenzia. Più tardi, avranno la possibilità di parlargli. «Spero tanto che vada bene – sussurra il ragazzino – sono pronto a tutto per avere una casa».
Se le leggi federali americane non riconoscono nemmeno l’esistenza del rehoming, almeno sette Stati – Wisconsin, Louisiana, Maine, Connecticut, Massachusetts, Colorado e Florida – l’hanno proibito. Altri vietano che un bambino adottato possa essere trasferito in un altro Stato, ma ben poche autorità applicano questi limiti. Un progetto di legge che l’avrebbe vietato a livello nazionale, stilato nel 2016 da due deputati, non è mai stato approvato. Il limbo legale crea una serie di “opportunità” per i predatori sessuali, che con una cifra che va dai 1.500 ai 3.500 dollari versati ai “vecchi” genitori, possono farsi recapitare a casa un minore. Se in teoria, la famiglia adottiva dovrebbe trovare un assistente sociale che verifichi i requisiti per accogliere un bambino, non tutti lo fanno.
È successo a Nita Dittenber, ceduta dai genitori adottivi a una coppia dell’Ohio, Jean Paul e Emily Kruse, della quale nessuno aveva controllato le credenziali. Sarà proprio grazie alla testimonianza della ragazzina che Jean Paul finirà in prigione a vita per lo stupro ripetuto delle sue quattro figlie adottive. Tom Smith, l’uomo che ha mandato Nita nell’inferno della dimora dei Kruse, oggi, tre anni dopo la sentenza, non si dà pace. «Ce ne siamo liberati come di un animaletto», spiega dalla Florida, dove vive dopo il divorzio con la moglie, che, dice, l’aveva spinto a mandare via la bambina con la quale non andava d’accordo. Nita è ormai maggiorenne. Raggiunta su Facebook, dice di non provare odio per Tom, ma non vuole vederlo mai più. Si ricorda ancora di quanto era felice di arrivare negli States da Haiti, dove aveva perso mamma e papà. E non dimenticherà mai l’orrore di sentirsi dire che doveva andarsene. Pensa che Tom abbia fatto un errore, sa che ne è pentito, e si sforza di non volergliene. È più diretta quando le si chiede che cosa pensa del rehoming. «È quando – spiega – due genitori stupidi e inetti decidono di sbarazzarsi del bambino che avevano promesso di amare per sempre. Come di un vestito comprato per posta che è troppo stretto».
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