Dopo la guerra. «Abu Mazen non potrà governare Gaza con i carri armati di Israele»
Un carro armato israeliano oltre la barriera di confine con la Striscia di Gaza, fotografato da Sderot in Israele
«Israele non cerca di rioccupare né di governare Gaza». L’esercito, però, «manterrà il controllo della Striscia dopo la fine dell’offensiva». Le due frasi – evidentemente contrastanti – sono state pronunciate da Benjamin Netanyahu nell’arco della giornata di ieri, a distanza di appena qualche ore. La prima nell’intervista all’emittente statunitense Fox News, la seconda nell’incontro con i residenti delle comunità situate ai confini con Gaza. L’ambiguità del premier non fa che confermare la sensazione generale della mancanza di un progetto israeliano per il dopo-guerra nell’enclave. Il nodo è spinoso. Dopo essersi illuso per anni di poter «gestire il conflitto» con Hamas, Netanyahu se l’è visto esplodere fra le mani. E ora sembra cavalcarlo senza intenzione di risolverlo. «Perché non può farlo se non affrontando la questione palestinese nel suo insieme ovvero Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Non ci può essere una vera soluzione “a pezzi”. Accettarlo implica, però, un drastico cambiamento di rotta rispetto alla politica perseguita negli ultimi decenni», spiega Yonatan Mendel, docente del dipartimento di Studi mediorientali dell’Università Ben Gurion di Gerusalemme.
Il primo accademico israeliano a tenere, dal 2020, insieme al collega Dotan Halevy, un corso specifico su Gaza. Dalla presa del potere del gruppo islamista nel 2007, i successivi governi israeliani hanno sigillato l’enclave, impedendo la libera circolazione degli abitanti. «E, soprattutto, hanno attuato una politica di separazione totale con l’altra porzione della Palestina, la Cisgiordania, controllata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), a sua volta guidata da Fatah. Gaza City e Ramallah sono stati finora vasi non comunicanti – prosegue l’esperto –. Come cambiare ora? Sarebbe difficile per Abu Mazen governare la Striscia con i carri armati israeliani». Eppure riportare l’enclave sotto l’alveo dei Territori appare la «soluzione più naturale» nel caso della probabile fine del “regno di Hamas”, aggiunge Dotan Halevy. È l’ipotesi caldeggiata da Washington – dopo una fase di transizione supervisionata da forze internazionali che, però, Netanyahu non vuole – a cui la stessa Anp s’è detta interessata. Gli incentivi sono forti a cominciare dallo sbocco sul mare. «Ci sono, però, una serie di variabili – afferma Halevy –. Primo: che cosa significa per Israele sconfiggere Hamas? Vuol dire distruggerne le capacità logistiche o sbaragliare anche il suo braccio militare – le brigate al-Qassam – o addirittura azzerarne l’intera struttura amministrativa sul modello di quanto fatto dagli Usa in Iraq con il partito Bath?». La “scenario iracheno” «è improbabile visti i risultati fallimentari. Più plausibile si replichi quanto fatto da Hamas dopo la presa del potere. Il gruppo armato ha mantenuto al suo posto il personale amministrativo legato ai rivali di Fatah e lo ha sostituito progressivamente. In questo caso, l’Anp avrebbe una chance. Ci sono, tuttavia, altri due elementi da considerare. Israele eliminerà il blocco sulla Striscia? In caso contrario, sarebbe molto complicato il collegamento con Ramallah. E, infine, ci sarà l’atteso rinnovo al vertice dell’Anp o resterà Abu Mazen?». L’attuale presidente palestinese ha scarsissimo consenso in Cisgiordania che, proprio in segno di opposizione, guarda ad Hamas.
«Se, dopo 18 anni, ci fossero elezioni, probabilmente Hamas vincerebbe in Cisgiordania e perderebbe a Gaza – dice Mendel –. La Striscia subisce due occupazioni contemporanee, quella israeliana e quella degli islamisti». «L’Anp con la barba, li hanno soprannominati poiché li considerano corrotti al pari delle autorità cisgiordane – gli fa eco Halevi –. Anche i più critici riconoscono, però, ad Hamas la capacità di tenere sotto controllo i gruppi salafiti ancora più radicali. Con la sua sconfitta, questi ultimi potrebbero cercare di rialzare la testa». Il fatto è – conclude Mendel – che «l’unico modo per battere i gruppi terroristici è quello di renderle irrilevanti, offrendo alternative più efficaci. Così torniamo al punto di partenza. La soluzione alla questione palestinese è politica e integrale. Ed è nelle mani di Israele. Avverrà solo quando si renderà conto che “gestire il conflitto” è più pericoloso di risolverlo”».