Con lui ce l’abbiamo fatta. Tutti insieme: americani, europei, l’Italia, il Vaticano. Nel 2006 una mobilitazione internazionale senza precedenti ha tirato giù dal patibolo Abdul Rahman, l’afghano convertito dall’islam al cristianesimo e che per questo ha rischiato la condanna a morte per apostasia. Aveva 41 anni, allora. Molti dei quali (16) trascorsi in Pakistan, lavorando come infermiere per un’associazione cristiana di assistenza ai profughi. In Pakistan si era convertito, poi aveva deciso di trasferirsi per un periodo in Germania, quindi di rientrare in patria, nel 2002: in un Afghanistan liberato dai taleban ma non dal pregiudizio. Se n’era accorto presto, Abdul Rahman. Aveva avviato un procedimento per l’affidamento delle figlie, e proprio durante un’udienza, nel febbraio 2006, il suocero lo accusò di apostasia. «Ha tradito l’islam, tiene in casa una Bibbia», disse. Persino il padre lo ripudiò: «Mio figlio è morto. È una vergogna per la famiglia». Il 19 marzo la polizia andò a prenderlo a casa per portarlo in carcere. In base all’articolo 3 della Costituzione afghana del 2004 (che riconosce il primato della legge coranica), rischiava la pena capitale. Accadde qualcosa, però. Perché la notizia cominciò a circolare in quell’Occidente che stava con i piedi ben piantati in Afghanistan: quelli di migliaia di soldati impegnati nella stabilizzazione del Paese. Da Washington, Roma, Berlino, Ottawa partirono i messaggi diretti al presidente Hamid Karzai affinché impedisse l’esecuzione di quella sentenza assurda, incompatibile con il rispetto dei diritti umani e con la ragionevolezza. La campagna di mobilitazione culminò con l’intervento di papa Benedetto XVI, che scrisse una lettera al presidente afghano. Karzai per qualche giorno nicchiò, strappato tra l’esigenza di accontentare gli alleati e quella di rispondere a una tradizione antica. Poi si mosse. Fu trovato un escamotage: Abdul Rahman venne giudicato «mentamente incapace di sostenere un processo». Il 29 marzo venne liberato. E, grazie al particolare impegno della Farnesina, fu accolto in Italia come rifugiato politico, «perché perseguitato per motivi religiosi». Da otto anni Abdul Rahman vive nel nostro Paese, in un luogo superprotetto. Quei dieci, interminabili, giorni del 2006 gli hanno restituito la vita. E hanno restituito al mondo il senso di quel che va fatto, quando si deve.