«Malissimo, va malissimo...». «Ad al-Qosh non è rimasto nessuno... In un’ora l’esercito curdo si è ritirato...». Frasi interrotte, anche se pronunciate con calma, come sospese nell’incredulità. Padre Ghazwan Sahara, finora il curato di al-Qosh. Finora a capo della commissione che gestiva gli aiuti per gli sfollati da Mosul. Fino a mercoledì notte. Oggi, pure lui, è un profugo a Dohuk, nel Kurdistan, con tutta la sua gente. Una serata tranquilla quella di mercoledì, rispetto a quelle di domenica e di lunedì quando i colpi di mortaio erano caduti sui villaggi cristiani nella piana di Ninive: almeno una tregua dopo la battaglia di domenica a Sinjar e la fuga di decine di migliaia di yazidi. Da allora i villaggi nella Piana dei cristiani erano come stretti in una morsa dai guerriglieri qaedisti con la bandana nera. Solo i curdi, fuori dai villaggi, a strenua difesa. All’improvviso l’annuncio, fatto giungere dal capo dei peshmerga curdi ai giovani che si alternavano di vedetta alla periferia della cittadina: «Abbiamo avuto l’ordine di andarcene », ha spiegato laconico il comandante. Svanita in un’ora l’unica forza organizzata in grado di fornire protezione ai caldei e siro-cristiani dell’antica Ninive. «Adesso non sappiamo a chi credere. Abbiamo tutti contro», sospira padre Ghazwan con in bocca l’amaro sapore del tradimento. Quando Mosul è caduta in mano al Califfato islamico, senza che l’esercito iracheno fosse in grado di difenderla, il primo esodo. Da ieri, con l’improvvisa ritirata dal fronte dei peshmerga da Qaraqos il centro più importante con 40-50mila siro-cattolici, da al-Qosh (25-30mila caldei), Tell Kef, Telleskuf, Baakofa e altri villaggi ancora, la fuga obbligata. Centomila in tutto, forse di più, in quella che sembra a tutti una deportazione forzata: per la prima volta nella storia, la piana di Ninive è senza i cristiani. Una “fuga dall’Egitto”, per evitare la furia sterminatrice dei guerriglieri del-l’Isis. Un correre di porta in porta, annunci agli altoparlanti per avvisare tutti che la terra di sempre è diventata la terra da cui scappare. Solo una cinquantina di uomini armati sono rimasti sulla strada a nord di al-Qosh fino alla cinque di mattina per coprire la fuga di famiglie svegliate nella notte dal tam tam del terrore. Pochi sacchi con i vestiti, alcuni addirittura in pigiama su carovane di auto improvvisate o a piedi lungo il deserto. Una fuga di almeno trenta chilometri più a Nord, nel Kurdistan, tracciando probabilmente un solco nella storia dell’Iraq. Stessa sorte per Qaraqosh, la città dei siro-cattolici: «Saccheggiano, devastano, rubano nelle case, non risparmiano nemmeno le chiese», dichiara l’arcivescovo di Kirkuk Yousif Thoma. Dohuk la prima città del Kurdistan in cui riversarsi, ma con chiese e scuole già strapiene. Gli altri per strada. Una «catastrofe umanitaria», afferma ai microfoni di
Radio Vaticana il patriarca di Baghdad Louis Sako. Migliaia di persone in cammino lungo la strada, anche da tre, quattro ore. «Sono donne, anziani, bambini: occorre mobilitare l’opinione pubblica e le società di tutti i Paesi», denuncia il patriarca mentre in Iraq «oggi c’è un vuoto, un vuoto. Il governo non ha le forze per controllare il Paese». Non c’è un vero esercito e «i curdi si stanno ritirando, hanno solo armi leggere». Per questo Louis Sako chiede «a tutte le persone di buona volontà», all’Onu, all’Unione Europea e alle organizzazioni umanitarie di intervenire «per scongiurare il genocidio». Mobilitata nell’accoglienza tutta la comunità cristiana anche ad Ankawa, il sobborgo cristiano di Erbil, la capitale del Kurdistan: la città già strapiena dei profughi della prima ondata, quelli provenienti da Mosul, non pare però in grado di accoglierne altri. Per molti la notte riserva solo un marciapiede, per i più temerari, giunti nell’estremo Nord di quel che resta dell’Iraq, il confine chiuso della Turchia. Pensando tutti a Qaraqosh e al-Qosh: per la prima volta senza cristiani.