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Ucraina, reportage. «A Kherson ormai combattiamo la guerra che non porta a nulla»

Luca Foschi, Kherson martedì 8 agosto 2023

Il condominio di Kherson dove, domenica notte, una donna ucraina è stata uccisa in un raid russo

La desolazione del Parco delle Fontane sembra quasi voler occultare la piccola cattedrale di Santa Caterina. L’erba ha conquistato i margini dei sentieri che lo attraversano, è cresciuta alta fra gli alberi, si è insinuata fra le connessioni delle piastre che ricoprono gli spiazzi. La selva diventa poi giardino affacciato sulle pareti cieche della chiesa. Marmi e finestre sono stati coperti con tavole di legno, il nastro adesivo tiene assieme il vetro dei rosoni. Una donna sblocca il lucchetto che chiude il portone, i pochi fedeli in mite attesa sulle panchine entrano nella luce fioca, baciano le icone, accendono i ceri.

«I russi hanno bombardato il parco con le munizioni al fosforo. Uno dei proiettili è caduto sulla cupola superiore della cattedrale. Piccoli fuochi, una liquefazione. Il giardiniere ha chiamato i vigili. I droni devono aver rilevato l’attività, poco dopo l’artiglieria ha infatti colpito la squadra, ferendo quattro pompieri» racconta Andreij Coval, diacono che sostituisce il sacerdote per la Messa mattutina. Sono da poco passate le otto, e il silenzio di Kherson viene riempito dai cupi, costanti rimbombi della guerra. Il fronte è sulle rive del Dnepr, a poco più di un chilometro. Vicino è anche l’ospedale bombardato due volte fra martedì e venerdì, dove dà il suo contributo Medici senza Frontiere. «L’esplosione è stata spaventosa. Abbiamo attraversato di corsa i corridoi, per sbucare dall’altra parte dell’edificio» spiega Maria, infermiera ventenne che mangia e dorme in ospedale, vive una forzosa clausura patriottica. L’ultimo caseggiato distrutto è l’obitorio prospiciente il pronto soccorso. Solo due salme all’interno al momento dello schianto. Gli operai sono già al lavoro per la ricostruzione, qui come sul tetto della struttura principale, che i proiettili hanno bucato per sconvolgere una delle due sale operatorie. «I boati ormai fanno parte di noi, sono un altro cuore» dice Alicia, collega poco più esperta. Lei vive in città, pochi metri distante dal ponte Antonovskij, dove infuria la battaglia. Nella notte di domenica una donna di 59 anni sarà uccisa dai raid russi. Feriti anche due soccorritori e una anziana di 93 anni mentre a sera 5 morti e 31 feriti si sono registrati a Pokrovsk nell’attacco a un condominio. Kherson è una scacchiera spettrale di edifici crivellati, sventrati, annichiliti. Ne attraversano la feroce solitudine mezzi dell’esercito di gran carriera e automobili esitanti, vuoti, vecchi tram rantolosi e solitari uomini nelle biciclette arrugginite, miraggi di donne con le sporte, rognose mute di cani. Passano, ed è di nuovo silenzio e ottuso frastuono, il vento caldo sulle cime degli alberi e le foglie secche a girare grattando sull’asfalto.

Al termine di viale Ushakova il filo spinato si confonde con i riverberi del fiume, e un vecchio soldato in panciolle si sorprende alla presenza, verifica i documenti, nega ogni fotografia. Solo dalla cattedrale azzurra e ferita di Santa Sofia viene una nota diversa. Sacerdote e coro dialogano come baritoni e soprani per pochi fedeli. Trascendenza e massacro sono separate solo dall’acqua. «Quella di Kherson è una guerra di pirati ormai. Si battono per le isole paludose ai margini occidentali della città. Attraversiamo il Dnepr con le barche per assaltare le posizioni nemiche, e i russi fanno altrettanto. È un balletto: due passi avanti e uno indietro. Per noi, e per loro» sostiene Dmitrij, giovane ufficiale in licenza.

Fuma una sigaretta sui gradini di casa, è venuto a raccogliere in fretta ciò che avanza nella casa abbandonata. « È difficile conquistare una nuova linea. Dopo l’esplosione della diga tutto il terreno è diventato un acquitrino. I cecchini russi osservano, tirano su tutta la linea, anche fra i varchi delle strade. Come possiamo proteggere le aree strappate ai russi se al primo colpo di vanga viene su l’acqua? A Est abbiamo qualche trincea sulle riva opposta. Ma è un obiettivo simbolico, non sfonderemo. Aspettiamo buone notizie dal fronte di Zaporizhzhia».

Poco più in là una macchina attende in moto davanti alla chiesa della Natività. Un prete imberbe coperto dall’abito talare esce rapido dal portone, una valigia in mano. Saluta, benedice sommario sul capo senza ascoltare e si tuffa nell’abitacolo. L’auto dilegua. Boba, obeso, sudato, tatuato pescatore in canotta maledice l’invasione dell’acqua e rimpiange i giorni delle reti stracolme, torna fra le catapecchie costruite ai margini del porto con un pacco di riso, acquistato nell’unica bottega aperta, pochi metri quadri di scaffali vuoti. Quattordici paia di scarpe infantili sono ordinatamente disposte all’imbocco di una cantina, indecifrabili ed inquietanti. Ha fine Kherson nella linea orizzontale delle strade che corrono lungo la riva. I marciapiedi diventano terra polverosa battuta dalla canicola. Oltre comincia l’arrembaggio per le isole di fango.

Luda, Dima e Ajana pranzano all’ombra dei rami in questo limitare allucinato. Come gli altri, non hanno altro luogo dove andare. La fuga ha perso qualsiasi ragione. Le mosche ronzano sulla scatola di tonno, sul pane e le sardine, sui bicchieri di birra bollente. Ajana mostra le stanze travolte dall’inondazione.

È riuscita a salvare solo le pentole, dorme avvolta dall’umido fetido. Il terzetto propone un brindisi di vodka alla libertà ucraina. Dima intanto poggia la tazzina e auspica, perentorio: «Morte a Putin, il comunista». Con l’unghia del pollice disegna uno squarcio lungo il collo.