La fuga. A dieci anni dall'attacco del Daesh in Iraq i cristiani non ritornano a Ninive
La bandiera del Daesh issata sul campanile di una chiesa nella Piana di Ninive
Le notizie del penetrare delle milizie del sedicente Stato islamico, dalla Siria fin nel deserto dell’Anbar – nel cuore dell’Iraq – si rincorrevano da settimane. Il ritorno del l’incubo terrorismo era una realtà che si era materializzata all’inizio dell’estate del 2014 quando Abu Bakr al-Baghdadhi il 29 giugno si era proclamato Califfo dello Stato islamico.
Il 9 giugno circa 2mila miliziani del Daesh, senza che l’esercito regolare iracheno sparasse un solo colpo, si erano impadroniti di Mosul: la fuga di massa di un milione di abitati della seconda città dell’Iraq, compresi i circa 50mila cristiani, era solo la premessa di quello che doveva ancora accedere alla minoranza cristiana. La “N” di «Nazara», come venivano chiamati in tono dispregiativo i cristiani, venne disegnata nel giro di pochi giorni sulle loro case a Mosul. L’alternativa alla conversione fu la fuga da quella che diventerà con Raqqa una delle “capitali” del Daesh. Ma questo era solo la premessa a quello che doveva arrivare neanche due mesi dopo.
Gran parte dei cristiani trovarono rifugio nella vicina Piana di Ninive, nei villaggi siro-cattolici attorno a Qaraqosh, la cittadella simbolo dei cristiani iracheni. Così a Qaraqosh, gremita di profughi, mentre giungevano le notizie di violenze tremende che si compivano a Mosul cresceva il timore che i terroristi jihadiste sarebbe presto arrivati. Decisivo fu l’ordine di ritiro dato alla linea di peshmerga curdi che erano stati schierati tra Mosul e Qaraqosh: la motivazione ufficiale fu l’impossibilità di tenere quella posizione dopo che un altro fronte era stato aperto una trentina di chilometri ad Est di Kirkuk: la città con i secondi giacimenti petroliferi di tutto l’Iraq.
Tutto questo fu la premessa di quel 6 agosto 2014, la data simbolo della fuga dalla Piana di Ninive. La giornata iniziò tragicamente con un lancio di mortai su una casa di Qaraqosh: due cuginetti di soli 8 anni morirono mentre giocavano nel cortile. Ci fu giusto il tempo, nel volgere di poche ore, di celebrare i funerali. Il 3 di agosto, nel Sinjar, gli yazidi avevano subito un vero genocidio con gli uomini uccisi in rastrellamenti casa per casa, le donne fatte prigioniere per diventare schiave del sesso a Mosul e i piccoli reclutati come cuccioli del Califfato.
Un orrore di cui si ebbe contezza solo qualche tempo dopo. Fu invece la determinazione dei cristiani a non cadere sotto il dominio dei terroristi, a determinare la fuga: «Abbiamo perso tutto, ma non abbiamo perso la fede» dicevano le famiglie assiepate a frotte nei sagrati delle chiese a Erbil pochi giorni dopo. Perché la notte del 6 agosto i terroristi con le bandane nere entrarono al grido di «Allah Akbar» anche a Qaraqosh. Le autorità del Kurdistan decisero di aprire i check-point e far entrare dentro la regione autonoma, più di un milione di profughi: tra di loro anche i 150mila cristiani di Qaraqosh. La minoranza trovò rifugio ad Ankawa, il quartiere cristiano della capitale del Kurdistan iracheno.
Iniziava così l’odissea di tre anni nei campi profughi, con la sola speranza di rientrare a Qaraqosh che si materializzò solo con la liberazione il 18 ottobre del 2017.
Ma il rientro, possibile solo a partire dal 2018., in una città completamente distrutto non è mai del tutto avvenuto: nel 2014, nella Piana di Ninive, erano registrate 13.300 famiglie cristiane. Solo 9mila sono lentamente rientrate nella piana di Ninive. E per chi ha scelto l’esilio in Libano, Giordania o Turchia ormai il rientro sembra impossibile.