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Iraq. A dieci anni dal genocidio nel Sinjar gli yazidi sono soli con il loro dolore

Sara Lucaroni sabato 3 agosto 2024

Profughi yazidi in un campo profughi a Sirnak, in Turchia, nel 2014

Donne e ragazzi hanno appeso ai ruderi della città di Sinjar, nel nord-ovest dell’Iraq, a poco più di cinquanta chilometri dal confine con la Siria, le foto dei loro familiari uccisi: 3 agosto 2024, 3 agosto 2014. I colori vividi dei ritratti sfidano la stessa polvere riarsa e la luce insopportabile di allora. Non è vero che il tempo allevia il dolore.

A dieci anni dal giorno dell’attacco del Daesh che conquistava la Siria in piena guerra civile, il Sinjar e la piana di Ninive nel complicato Iraq post Saddam, gli yazidi celebrano il decimo anniversario di un genocidio ancora in corso: il loro. Il penultimo che l’Occidente è rimasto a guardare. La minoranza religiosa decimata dal fanatismo di al-Baghdadi che rapì 6.400 donne e bambini per farne schiave sessuali e soldati, e che uccise altrettanti uomini e anziani perché “idolatri”, oggi è raccolta al “Yazidi Genocide Memorial”, a Solagh, poco fuori dal centro città.

Ma dalla Russia all’Australia, passando per gli Stati Uniti e la Germania, la più grande come la più piccola comunità in diaspora, i notabili come la gente comune, non ricordano solo il 74° “ferman” – l’editto di sterminio – ma tutto quello che in dieci anni ha come inchiodato a se stesso quel giorno.

Come la stabilità della regione. La terra ancestrale della comunità non la amministra Baghdad o Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, ma ora la loro rivalità, ora la loro debolezza. Così dettano legge le mire contrapposte di Iran e Turchia, attraverso le milizie filo iraniane Hashd al-Shaabi che di recente hanno reclutato altri 2.000 giovani, e i checkpoint e i droni turchi che in 1.076 attacchi hanno ucciso anche i civili lì dove si trova il loro nemico giurato: il Pkk e le Ypg, Unità di protezione popolare, entrate a Sinjar nei giorni in cui i peshmerga di Erbil fuggirono di fronte alle armi americane rubate dal Daesh.

Il risultato sono partigianerie, nazionalismi e spaccature nella comunità, incapace di fare politica e impossibilitata a rappresentarsi. E serve a poco che la Suprema corte irachena abbia condannato a morte la prima moglie di al-Baghdadi, impenitente carceriera delle schiave yazide del marito, se le Forze democratiche siriane curdoarabe hanno liberato 1.200 miliziani del Daesh e 4.500 ne libereranno a breve. E che le cancellerie occidentali non parlino volentieri di rimpatriare i propri connazionali radicalizzati richiusi nelle prigioni e nei campi siriani come al-Hol.

I 250mila yazidi sfollati nei campi profughi preferirebbero espatriare piuttosto che essere incentivati a rincasare tra le macerie e la penuria di servizi e ospedali a Sinjar e Ninive. E la chiusura del team medico-investigativo UNITAD non permetterà di scavare tutte e 80 le fosse comuni per recuperare i resti dei martiri. È tanto il nuovo pacchetto di sussidi di Erbil ai 3.500 sopravvissuti ma è poco quel che fa per ritrovare le ultime 2.600 donne rapite di cui non si conosce il destino.

Gli yazidi curano se stessi con la resilienza, lo sanno che il tempo non allevia il dolore. Forse l’avrebbe fatto se non avessero lasciato troppo al buio questo pezzo di Medio Oriente.