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Guerra. 800 diplomatici Usa e Ue in pressing su Israele: cessate il fuoco

Anna Maria Brogi venerdì 2 febbraio 2024

Vita quotidiana degli sfollati a Rafah

I gruppi filoiraniani in Siria e Iraq nel mirino degli Usa: i raid promessi da Joe Biden dopo l'uccisione di tre militari statunitensi al confine tra Giordania e Siria sono scattati in serata. Le forze armate statunitensi hanno reso noto che in Siria e in Iraq sono stati condotti raid aerei contro più di 85 obiettivi dei Guardiani della rivoluzione iraniani e loro alleati. Sono stati colpiti centri di comando e controllo, di spionaggio, depositi di razzi, missili e droni, strutture per la logistica.

Intanto Hamas risponderà «molto presto» a una proposta che prevede pause prolungate nei combattimenti a Gaza e scambi graduali di ostaggi controllati da Hamas con palestinesi imprigionati in Israele. Tregua sì, tregua no. Se non ci fosse di mezzo la vita di 2,3 milioni di persone, sarebbe un rompicapo intrigante. Invece ogni spiffero di informazione che arriva dalla direzione di Hamas – che da giorni ha ricevuto la proposta di intesa mediata con l’intelligence israeliana da Cia, Egitto e Qatar – significa speranza o morte nella Striscia di Gaza. «I movimenti di resistenza palestinese prenderanno in considerazione iniziative per un cessate il fuoco solo se rispetteranno gli interessi della nazione palestinese» ha detto sibillino il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, in un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, che ha sentito anche il leader del movimento palestinese della Jihad islamica, Ziyad al-Nakhalah. I capi dei due gruppi eversivi hanno concordato, rende noto l’ufficio di Haniyeh, che non ci sarà alcun accordo per la liberazione degli ostaggi senza la cessazione del conflitto, il ritiro delle forze israeliane, la fine dell’assedio, la ricostruzione di Gaza e la scarcerazione dei detenuti in regime di sicurezza.

Dal Libano un alto esponente di Hamas, Osalma Hamdam, ripete due nomi di peso che tornano ad ogni trattativa: escano dal carcere Marwan Barghouti, popolare capo di Fatah (il partito al potere in Cisgiordania, di cui è espressione il presidente palestinese Abu Mazen) che molti vedono come il possibile futuro leader dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), e Ahmad Sadat, capo del Fronte popolare di liberazione della Palestina. Barghouti, arrestato nel 2002, sconta cinque ergastoli per aver organizzato attentati in cui morirono cinque israeliani durante la seconda Intifada. Sadat sconta 30 anni di carcere per il suo ruolo nell’assassinio nel 2001 del ministro israeliano del Turismo Rehavam Ze’evi. Rilasciarli per Israele significherebbe pagare un prezzo altissimo per il ritorno a casa dei 136 rapiti. Anche l’ipotesi di porre fine al conflitto è sempre stata esclusa categoricamente dal governo di Benjamin Netanyahu, al quale la tregua di un mese e mezzo servirebbe a portare a casa gli ostaggi. Per proseguire la guerra fino al raggiungimento dell’obiettivo di «distruggere Hamas» e «demilitarizzare Gaza».

Se sul piano negoziale l’impasse non pare sbloccarsi, sul terreno la guerra procede con la sua tragica contabilità. Sarebbero salite a 27.131 le vittime, secondo il ministero della Sanità controllato da Hamas, e i feriti sarebbero 66.287. Con 112 morti in ventiquattr’ore.

Mentre i nuovi sfollati da Khan Yunis premono su Rafah, dove si affolla più di metà dell’intera popolazione di Gaza, il timore è che la città diventi teatro di una nuova offensiva. Smantellata la cellula terroristica a Khan Yunis, le Forze di difesa scenderanno ulteriormente a sud per “finire il lavoro”. E allora per oltre un milione di profughi, con le spalle al muro del confine egiziano, non resterebbe scampo. Lo sanno. «Rafah è una pentola a pressione di disperazione e temiamo per quello che verrà dopo» avverte il portavoce dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), Jens Laerke. «È come se ogni settimana pensassimo che non può andare peggio ma poi la situazione peggiora sempre».

Domenica è atteso in Israele il segretario di Stato americano Antony Blinken, che giovedì ha incontrato a Washington alcuni leader della comunità palestinese americana mentre da altri si è visto respingere l’invito a causa del sostegno dell’amministrazione di Joe Biden all’alleato israeliano.

E ci sono anche diplomatici statunitensi tra gli 800 firmatari di un documento “transatlantico” che accusa Israele di «gravi violazioni del diritto internazionale». Funzionari in servizio per conto di 11 governi europei, fra cui Regno Unito, Germania e Francia, oltre a quello Usa, esortano i rispettivi Paesi ad agire per fermare il conflitto. Altrimenti, scrivono in un testo visionato anche dalla Bbc, c’è «il rischio di rendersi complici di una delle più gravi catastrofi umanitarie del secolo». Fino, potenzialmente, a scenari di «pulizia etnica e genocidio». Un funzionario americano con «oltre 25 anni di esperienza» nei ranghi dei servizi di sicurezza nazionale ha denunciato, sotto anonimato, «il continuo rifiuto» dei vertici degli Stati interessati di raccogliere questi allarmi lanciati da «voci che conoscono la regione (mediorientale) e le sue dinamiche». «Qui la realtà – ha detto alla Bbc – è che non stiamo solo omettendo di prevenire qualcosa, ma stiamo diventando attivamente complici».

All'Italia comando tattico della missione Ue in Mar Rosso
“L'Unione Europea - oggi - ha chiesto all'Italia di fornire il Force Commander dell'operazione Aspides nel Mar Rosso (l'ufficiale ammiraglio che esercita il comando imbarcato degli assetti navali che partecipano all'operazione). L'importanza e l'urgenza dell'Operazione Aspides, che contribuirà a garantire la libera navigazione e la sicurezza del traffico commerciale nel Mar Rosso, hanno indotto la Difesa italiana ad assicurare immediatamente il proprio sostegno. Si tratta di un ulteriore riconoscimento dell'impegno del Governo e della Difesa e della professionalità della Marina Militare”. Così il ministro della Difesa,Guido Crosetto