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Rotta balcanica. Rotta balcanica, il futuro che non c'è

Ilaria Solaini sabato 20 agosto 2016
Che ne è stato dei profughi fermi al confine tra Grecia e Macedonia, dopo lo sgombero di Idomeni, la tendopoli che per mesi ha tenuto alta l'attenzione dell'Europa sulla crisi umanitaria presente rotta balcanica? In Europa e a livello di Ue è una domanda senza risposta. Quasi più nessuno si occupa di capire quale sarà il destino di 57mila profughi bloccati da mesi in Grecia. Chi sulla rotta balcanica opera e torna a ripetizione per capire come si stanno evolvendo i flussi migratori, dà altre risposte, pensa agli scenari futuri qualora si dovesse assistere a un ritorno di grandi numeri di persone in transito e guarda con preoccupazione all'arrivo dell'inverno e all'impossibilità di continuare a vivere in tendine, senza riscaldamento, in mezzo ai capannoni industriali o siti olimpici dismessi.

(Nelle foto il campo di Oreokastro vicino a Salonicco, dove vivono circa 1.400 persone) Di più, gli operatori delle organizzazioni umanitarie, ma anche gli stessi profughi sono arrivati a parlare di un prima e di un dopo Idomeni: perché «le condizioni dei campi formali in Grecia, quelli gestiti dai militari, si sono rivelate assai peggiori di Idomeni» ha spiegato Silvia Maraone che lavora per la Ong Ipsia delle Acli, occupandosi della area dei Balcani. Con ordine: chi è più vulnerabile, chi ha figli, chi è anziano o disabile è rimasto bloccato in Grecia, da quando le frontiere macedoni, croate, serbe e ungheresi sono state formalmente chiuse lo scorso 20 marzo. Di fatto, una reclusione senza colpe. Circa 10.300 si trovano nei campi profughi sulle isole, inclusi 3.800 bambini e tra loro ci sono quelli arrivati dopo il 20 marzo; gli altri sono sulla terraferma. Perlopiù sono profughi di nazionalità siriana. La seconda nazionalità rappresentata è quella afghana. Poi ci sono gli iracheni. Non mancano gruppi di pachistani e iraniani.

Ma come sopravvivono da mesi in questo limbo? «Chiedono della Germania, chiedono se l'Europa riaprirà le frontiere». In una parola chiedono speranza di un futuro che viene loro negato. «Anche se il diritto all’istruzione va garantito i bambini che vivono nei campi non vanno scuola - ha raccontato Maraone -. Le organizzazioni che sono autorizzate a entrare nei campi sono poche e di conseguenza è scarso il sostegno psico-sociale che ricevono i bambini, ma anche gli stessi adulti». 

(Nelle foto il campo di Oreokastro vicino a Salonicco, dove vivono circa 1.400 persone)I gruppi etnici e le minoranze religiose non vengono rispettate nella disposizione delle tende nei campi regolari: e questo significa alzare il rischio di violenze interne, dando luogo a possibili convivenze conflittuali. E ancora, le condizioni igieniche sanitarie così come il cibo nei campi regolari greci sono scadenti: «Molte persone vorrebbero poter cucinare per sé stesse - ha aggiunto l'operatrice delle Acli -, ma non possono farlo per motivi di sicurezza». Le persone più intraprendenti si muovono comunque, almeno chi non è troppo isolato e può dai campi raggiungere le vicine città. «Alcuni riescono ad andare a comprare cibo e oggetti da rivendere nei campi - ha proseguito Maraone -, dove si trovano coltelli, fornelli a gas, pentole. I militari di guardia lasciano fare, per evitare problemi. Gestire mille e più persone nel modo sbagliato vorrebbe dire fronteggiare caos e possibili rivolte».

(Nelle foto Elliniko, il campo profughi ad Atene dove vivono i profughi in quello che era il vecchio aeroporto di Atene e due campi sportivi allestiti per le Olimpiadi del 2004) Dalla Grecia alla Serbia fino all'Ungheria: unica via per il Nord Europa In mezzo a questa situazione stagnante che riguarda la Grecia e i 57mila profughibloccati da mesi ci sono alcuni numeri riportati anche dall’Acnur che parlano dell’unica via d’uscita possibile verso Nord, il confine serbo-ungherese. Ogni giorno 15 persone vengono autorizzate dalle autorità ungheresi a passare dal valico di Horgos e altrettante dal valico di Kelebija. Ma come si arriva dalla Grecia fin lì? Pagando i trafficanti 3mila euro a testa e rischiando di perdere tutti i soldi e le ultime speranze rimaste per un poliziotto meno compiacente alla frontiera macedone. Se tutto va bene, una volta arrivati in Serbia, molti fanno richiesta d'asilo: «Anche se è evidente che i profughi non vogliono realmente fermarsi in Serbia, conoscono la situazione economica del Paese, le loro mete finali continuano a essere i Paesi del Nord Europa, su tutti la Germania» ha spiegato Ana Zivkovic, responsabile della comunicazione di Caritas Serbia.

(Nella foto il One Stop Centre a Subotica, in Serbia dove ci sono al momento 463 persone)
Se 7.100 sono state le domande di asilo in Serbia nel 2016, di cui quasi mille in queste settimane d'agosto, e i profughi in Serbia a oggi sono circa 4.000 questo significa che mancano all'appello almeno 3mila persone. In altre parole, avviare la procedura per l’asilo in Serbia permette di prendere tempo e di trovare riparo e cibo nei centri profughi della Serbia ma l'obiettivo rimane raggiungere la frontiera serbo-ungherese, dove c'è quella che viene chiamata la «piccola Idomeni», circa mille persone accampate in modo informale. Mancano il cibo e i servizi di base: complice il fatto che le ong non possono operare nella zona di transito tra le due frontiere.  L'Ungheria oltre al filo spinato ha schierato anche l'esercito al confine con la Serbia e ha introdotto una legge che punisce i profughi trovati in territorio ungherese fino a 8 km dal confine serbo. L'espulsione verso la Serbia di queste persone è immediata.

(Il valico di Horgos, in Serbia)Stando all’ultimo report dell’Acnur 463 persone si trovano nel One stop centre di Subotica, «dove come Caritas riusciamo a essere presenti - ha aggiunto la responsabile della comunicazione di Caritas Serbia - e a distribuire anche pacchi vivere sia nel centro sia alla stazione di Subotica» dove i migranti ogni giorno si accalcano per prendere l'autobus che li porta a Horgos. Il nuovo inferno dei profughi, seppur più piccolo nelle dimensioni rispetto a quello che è stato Idomeni. «Come Caritas Serbia non riusciamo ad avere un permesso formale per offrire aiuti umanitari e cibo nella zona di transito tra le due frontiere - spiega ancora Zivkovic -. Lì la situazione sanitaria è terribile: l'acqua corrente è stata portata solo pochi giorni fa».