Giovani e Vescovi. Gervasoni: identità diverse possono integrarsi, oltre l'emotività
Monsignor Gervasoni insieme ai giovani lombardi in Duomo, il 6 novembre
«L’aspetto interculturale riguarda i giovani di oggi in modo strutturale e fa scaturire tante domande». Monsignor Maurizio Gervasoni, vescovo di Vigevano, il 6 novembre a "Giovani e Vescovi" si è seduto proprio al tavolo dell’Intercultura. «Abbiamo chiesto ai giovani quali nuovi approcci la Chiesa può avere sul tema. Fino a qualche decennio fa l’intercultura interrogava solo le élite, non era un vissuto popolare perché gli stranieri in Italia erano pochissimi» spiega Gervasoni, rispondendo alle domande raccolte tra i giovani. Per leggere il presente, allora, cominciamo col dare uno sguardo al passato.
Monsignor Gervasoni, che approccio ha testimoniato la Chiesa negli anni in cui i primi flussi migratori arrivarono in Italia?
Ero giovane, lo ricordo bene. Chi arrivava chiedeva di fare parte della nostra società: la questione si è posta subito come sociale, economica e politica, e la Chiesa ha risposto in primis ai bisogni di integrazione lavorativa e sociale. Poi ci siamo resi conto che accogliere significava occuparsi anche del credo di chi arrivava: c’erano persone musulmane che chiedevano un’accoglienza rispettosa della loro fede, persone cristiane ma non cattoliche, ad esempio tanti ortodossi, e poi anche cattolici. Noi ci trovavamo con un modello dominante di interpretazione, il nostro, e incontravamo una grande diversificazione che arrivava tutta dall’esterno. Oggi la situazione è cambiata, i giovani che vivono in Italia sono in prima persona espressione della diversità.
Da dove arriva lo spirito di accoglienza che si lega alla radice cristiana?
La regola morale di accogliere lo straniero è la conseguenza diretta della fraternità in Cristo, il motore che spinge il cristiano alla missione. Il Vangelo chiarifica innanzitutto che tutti gli uomini sono figli di Dio e che hanno l’esigenza forte di ricevere l’annuncio di un Dio misericordioso, che salva in Gesù e ci rende fratelli. Da questa grande affermazione scaturiscono nei nostri contesti l’obbligo morale e l’invito evangelico all’accoglienza di tutti, stranieri e non.
In queste settimane migliaia di persone in Italia si sono mobilitate per accogliere i profughi ucraini, con un’apertura che non si è verificata nei confronti di altre situazioni di difficoltà. Cosa dice, questo, del nostro modo di vivere l’incontro con la diversità?
Spesso l’atteggiamento di accoglienza o di rifiuto dell’altro scaturisce da sensazioni di tipo emotivo- affettivo che vengono influenzate da diversi fattori, tra cui la comunicazione dei media. Sull’accoglienza dei profughi ucraini, mi chiedo cosa accadrà nel medio e lungo periodo: l’integrazione non può basarsi su una reazione di breve termine, perché i bisogni delle persone sono di lungo periodo. Per tanti anni ho operato in Caritas e ho osservato che quando l’emotività si spegne, ed emergono le prime difficoltà, anche l’accoglienza rischia di cambiare colore. Bisogna quindi distinguere un’accoglienza che deriva da una reazione emotiva e quella che scaturisce da un compito morale e sociale di costruzione di una società nuova, che per noi cristiani si lega alle scelte fondamentali della vita: l’amore e la carità.
Nell’incontro con culture diverse c’è sempre una ricchezza?
Sì, per spiegarmi prendo in prestito le parole del Vangelo: questa ricchezza è come un seme lanciato nella terra e che deve crescere. Devi piantarlo, bagnarlo, e aspettare. Quando è pronto puoi raccoglierne i frutti, ed è tuo compito assimilarli dentro di te. Più in generale, noi diciamo 'ricchezza' l’incontro con la diversità perché il confronto storico-culturale del passato l’ha definito tale. Conosciamo il valore della relazione umana grazie a quelli che prima di noi si sono giocati la vita proprio per la sua ricchezza, e ce l’hanno lasciata come patrimonio.
Che cosa ha imparato dai giovani che ha incontrato il 6 novembre in Duomo?
Come ha detto papa Francesco, i giovani hanno il fiuto della verità, sanno percepire idealità che li impegnano in maniera profonda. Metterli nelle condizioni di vivere esperienze vere e significative all’interno della Chiesa è la sfida più bella che possiamo raccogliere.