Adolescenti. "Volevo morire. Sono rinato grazie al teatro"
Un cerchietto, poco più grande di una monetina da 20 centesimi, nell’incavo del braccio sinistro, proprio dove si piega il gomito. Una piccola bruciatura, forse invisibile ai più. Eppure, anche in quel minuscolo segno c’è un momento della vita di Federico.Un momento drammatico, in cui la sua sofferenza è arrivata al culmine. Tanto da spingerlo a cercare a tutti i costi una soluzione - anche la più estrema - per porvi finalmente fine. Federico, oggi, ha 28 anni. Sta per cominciare un lavoro a cui tiene molto. È appassionato di teatro e di doppiaggio. Ama leggere, scrivere (“ho già pubblicato qualcosa e spero di poterci riuscire ancora in futuro”), fare sport. Nel suo racconto, è molto diretto; e generoso nel non tacere nemmeno i ricordi più duri, convinto che sia importante farsi testimoni per aiutare chi sta vivendo lo stesso dolore che lui ha provato sin da bambino.
Perché la sofferenza che lo ha portato a cercare di togliersi la vita - durante il primo anno di liceo - ha radici lontane. E si intreccia con la sua infanzia e la sua adolescenza. “Sono sempre stato un bambino timido, silenzioso. Mi piaceva leggere, giocare con le costruzioni, ma non avevo nessun interesse per il pallone. In un paesino di provincia come quello in cui sono cresciuto, però, il calcio era un momento d’aggregazione e non parteciparvi significava perdere occasioni importanti per farsi degli amici. A scuola, le cose non andavano meglio. Io ero sempre quello escluso. Anzi, la maggior parte dei miei compagni mi prendeva in giro e mi aveva affibbiato un terribile soprannome”.
Una svolta pare arrivare quando Federico passa alle medie. Cambia scuola, paese, amici. Sembra che tutto possa migliorare, ma non è così purtroppo. Perché di nuovo, si ritrova escluso dai compagni di classe. La delusione più grossa, però, arriva da un ragazzino che pensa sia suo amico e che invece gli gioca uno scherzo terribile. “I miei genitori si stavano separando. La mia nonna materna, con cui ho sempre avuto un bellissimo rapporto, non viveva vicino a noi e non potevo fare affidamento su di lei. All’inizio dell’anno scolastico, poi, era mancato un compagno di classe, malato di Sla, a cui mi ero molto affezionato.
Insomma, avevo disperatamente bisogno di amicizia. E quel mio cosiddetto “amico” che cosa fa? Inizia a mandarmi dei bigliettini fingendosi una ragazza per la quale mi ero preso una cotta. Dopo qualche giorno, comincio ad avere dei sospetti, mi sembra di riconoscere quella calligrafia… Lo prendo di petto, allora. E lui mi dice che sì, era stato lui a scrivermi, perché gli altri compagni lo avevano convinto che sarebbe stato divertente prendermi in giro. Io mi fidavo di lui. E lui sapeva bene quanto stessi male. Eppure, non aveva esitato a mettersi dalla parte dei più forti”.
Alle superiori, Federico si iscrive al liceo scientifico. E la sua nuova classe si rivela una bella e inaspettata sorpresa. “Nessuno si conosceva, ma tutti volevano fare amicizia e sostenersi. Mi si era aperto un mondo di possibilità, perché pensavo che, finalmente, avrei potuto cominciare nel modo migliore il mio nuovo percorso scolastico. Purtroppo, però, le cose non sono andate così. Perché il peso degli anni precedenti, e del bullismo che avevo subito, continuava a farsi sentire. E mi rendeva sempre più fragile, insicuro, triste”.
Per Federico è difficile chiedere aiuto. Con sua sorella ha un rapporto particolare è lei forse è troppo diversa per poterlo capire. Il legame con suo padre è teso, complicato dalla presenza di una nuova compagna con cui non riesce ad andare d’accordo. E a frenarlo dal confidarsi con sua madre c’è un episodio che risale all’infanzia. “Un giorno la mamma mi aveva detto “Federico lo so che stai male, perché da piccola io ero proprio come te”. Avrò avuto 8 o 9 anni, ma mi ricordo ancora le sue parole. E soprattutto, mi ricordo di aver pensato “ma se tu sai che cosa sto passando, che senso ha che io te lo dica? Se lo sai già, non ho bisogno di dirti nulla”. Mi rendo conto che quel ragionamento non aveva senso. Per un bambino della mia età, però, ne aveva eccome. Così, non le ho più detto niente e ho iniziato a tenere tutto dentro di me. E quando la mia sofferenza esplodeva, perché la pressione era troppo forte, cercavo di curarmi da solo le cicatrici sempre più fitte nella mia mente.
Più crescevo poi, più mi rifiutavo di chiedere aiuto anche perché pensavo che se lo avessi fatto mi sarei dimostrato debole e incapace di risolvere i miei problemi”. Per un certo periodo, Federico frequenta una psicologa ma neppure con lei riesce ad aprirsi. E nemmeno lei riesce a cogliere la disperata richiesta d’aiuto che Federico, seppur sottovoce, sta provando a mandare a chi gli sta vicino. “Tutto mi sembrava sempre più difficile e doloroso. Desideravo un po’ di attenzione, di affetto, ma nessuno se ne accorgeva. E ogni giorno di più mi ritrovavo a pensare che non ci fosse via d’uscita alla mia sofferenza. Se non la più drastica e definitiva”.
Il gesto che Federico compie in un freddo pomeriggio di febbraio, però, non è d’impulso. Ci mette tempo per arrivarci. Si “prepara” e poi tenta di farla finita con un’iniezione. Ma quel gesto si rileva più complicato di quanto potesse immaginare e quando capisce che le cose non stanno andando come dovrebbero, inizia ad avere paura. “Mi ero preparato a quello che avrei voluto accadesse in quel preciso istante, ma non ero pronto al resto. Non ero pronto a una fine che avrebbe potuto arrivare anche solo un attimo dopo quel momento in cui io non ragionavo più. In quell’istante, la mia mente si era completamente svuotata. Io ero solo azione, in me non c’era più il pensiero. Il suicidio non è un momento di lucida follia ma, piuttosto, un attimo di totale blackout. Tu non pensi più. Tu agisci soltanto. E hai una sola certezza: ‘se riesco a farla finita, tutto il dolore che ho patito fino a ora finalmente smetterà. E non soffrirò mai più’. Sei talmente disperato che non ti interessa più nient’altro; non riesci più nemmeno a pensare a come staranno le persone che rimarranno dopo di te. Se quell’attimo in cui non è più il tuo corpo a decidere ma è la parte più irrazionale della tua psiche ad avere preso il controllo su di te passa, però, tu sei fregato…”.
A quel momento seguono eventi concitati durante i quali la sorella di Federico trova la lucidità per chiamare la madre, che si precipita a casa dal lavoro e lo porta in Pronto Soccorso. E un lungo periodo di cura, prima in ospedale e poi in un centro di recupero psicofisico. A fare la differenza nella storia di Federico, però, è la possibilità di partecipare a un progetto innovativo nato nell’ospedale dove è stato ricoverato. Un percorso che lo aiuta a ritrovare il legame con ragazzi della sua età, fa nascere in lui la passione per il teatro e, giorno dopo giorno, lo sostiene nel ritrovare la normalità, la serenità e la bellezza della sua vita.
“Ho dato un colpo di spugna al mio passato e così mi sono salvato. Ho troncato tutte quelle relazioni malate che mi avevano fatto soffrire. Non mi sono più sentito diverso, “sbagliato”. Ho smesso di odiarmi e di chiudermi in me stesso. E, pian piano, mi sono riavvicinato alle persone chi mi erano davvero vicine.
Oggi sto bene. Ho imparato ad accettarmi per come sono e a prendermi cura di me. Non tutto è risolto, perché sto ancora “finendo di guarire”, ma so che le mie passioni, i miei progetti e l’amore di chi mi sta accanto potranno sempre aiutarmi ad affrontare anche le difficoltà. Il mio è stato un percorso pieno di spine e di sassi che mi facevano continuamente inciampare. Sono finito in un lungo tunnel buio. Alla fine di quel tunnel, però, c’era la luce. Perché la luce c’è sempre. Non la si può vedere da soli, però. Perché da soli si sprofonda in una terribile apnea, che confonde tutto e toglie lucidità. Per risalire a galla, allora, non bisogna aver paura di parlare del proprio dolore né vergognarsi di chiedere aiuto”.