Famiglia

Educazione. Meglio a casa con la mamma. Ma fino a che età?

Paola Molteni domenica 7 luglio 2024

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Donne, lavoro, natalità. È su questi tre fattori che si gioca la sfida per la sostenibilità sociale ed economica del Paese. Una meta ancora lontana per l’Italia, fanalino di coda in Europa sul fronte dell’occupazione femminile come su quello delle nascite. A ricordarlo è la ricerca che Fondazione Gi Group e Gi Group Holding hanno presentato di recente a Milano insieme a Valore D, prima associazione di imprese in Italia che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva. Uno studio unico, che mette a confronto sei diverse nazioni europee - Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna e Svezia - e contemporaneamente raccoglie le voci delle imprese, dalle grandi multinazionali alle aziende medie e piccole. Sì, perché è proprio il mondo imprenditoriale che oggi può fare la differenza nel promuovere un cambiamento sociale ed economico, a cominciare dalla realizzazione di tutte quelle iniziative che sostengano non solo l’occupazione delle donne ma anche la valorizzazione della genitorialità.

Buone prassi che vanno dalla condivisione dei carichi di cura alle misure di welfare aziendale, che si stanno rapidamente diffondendo. Sono i dati della ricerca a confermarlo. Due grandi aziende su tre (60%), per esempio, sono impegnate in attività di informazione sull’esistenza del congedo di paternità obbligatorio, rispetto al 46% delle piccole aziende. Che però sono quelle maggiormente occupate nell’estendere la durata del congedo di paternità (29, 8%) in confronto a quelle di grandi dimensioni (26,0%). Altrettanto condivisa l’intenzione di implementare nidi aziendali o convenzioni con asili nidi sul territorio. Su questo fronte si attiva il 31,1% delle piccole e medie imprese e il 32,9% delle grandi.

Fin qui le buone notizie. Le note dolenti arrivano quando si passa ad analizzare il contesto reale di casa nostra, fatto di luci e ombre. Rispetto alle nazioni comprese nella rilevazione, l’Italia è l’ultima, per numero di coppie con figli da 0 a 14 anni, dove lavorano entrambi i partner (51,1%). Situazione che si presenta invece nel 63,2% dei casi in Spagna, nel 69% in Germania, nel 69,2% in Francia, nel 78% in Olanda e nel 78,9% in Svezia. Una sproporzione che emerge più chiaramente a proposito dell’inattività femminile, ambito in cui il Belpaese presenta il tasso più alto in Europa, 31%, contro la media dell’Ue del 18,2%. Abbiamo poi la più ampia quota di donne che lavora in part-time involontario, il 51,7% rispetto al 19,6% della media europea. A dirla lunga sul gap sono i numeri che riguardano le dimissioni: sulle oltre 70 mila richieste avanzate nel 2022 ben il 75,4% è stato presentato dalle donne e solo il 24,6% dagli uomini. E a motivare la grande prevalenza delle domande da parte delle lavoratrici (41,7%) è risultata la difficoltà di conciliazione a causa della mancanza di servizi per la cura dei figli.

L’Italia poi, svela lo studio, è anche il Paese in cui è maggiormente radicata una cultura basata sulle differenze di genere, quello in cui emerge la più alta percentuale di accordo con l’affermazione per cui «se c’è poco lavoro è giusto vada data priorità agli uomini» (25,4% rispetto a una media Ue dell’11,4%). Al contrario, i modelli culturali più virtuosi si trovano nei Paesi Bassi e in Svezia, in disaccordo con questa visione nell’ordine degli 80-90 punti percentuali. Che il nostro sia un Paese dominato dagli stereotipi lo confermano i risultati della World Values Survey (WVS), un’ampia indagine condotta ogni 5 anni su 100 nazioni. Dalla ricerca emerge che il nostro è l’unico Paese in cui più di metà dei rispondenti (54,1%) pensa che «una madre che lavora danneggia i figli in età prescolare» (contro una media Ue del 30%).

Ma da un punto di vista pedagogico è vero che l’assenza della mamma, per diverse ore della giornata, potrebbe creare reali disagi nello sviluppo di un piccolo? « È la scienza a dirci che la presenza materna è indispensabile per la crescita di un bambino, soprattutto nei suoi primi mesi di vita», chiarisce Silvia Da Dalt, educatrice profesmadre sionale socio-pedagogica, autrice del testo L’attaccamento sicuro da poco pubblicato dalle Edizioni San Paolo. «Una teoria nata negli anni Sessanta dallo psicoanalista inglese John Bowlby, che studia proprio la relazione tra la e il bambino e permette di capire in che modo il legame che si instaura tra i due è in grado di influenzare lo sviluppo affettivo e sociale del piccolo». L’educatrice spiega che in base all’accudimento materno il bambino matura un particolare stile di attaccamento che, in estrema sintesi, può essere definito come sicuro o insicuro, dal quale dipenderà il suo equilibrio affettivo e il suo modo di relazionarsi agli altri.

«Una madre attenta a percepire e interpretare correttamente le richieste del figlio saprà trasmettere quell’attaccamento sicuro che rappresenterà sempre per lui un fattore di protezione emotiva. Detto questo – precisa l’esperta – la presenza della mamma non va intesa con rigidità nevrotica. Il piccolo ha assolutamente bisogno del cosiddetto “materno”, una cura sensibile e costante che comunque non deve necessariamente venire da un’unica presenza. A fornirgliela può essere anche un altro caregiver che si affianchi alla mamma: il papà, la nonna, anche la baby sitter. A patto però che l’accudimento da parte di più figure sia coerente, altrimenti il bambino potrebbe confondersi e il suo sviluppo risentirne». L’autrice precisa poi che «tra i 12 e i 18 mesi, una volta instaurato il legame di attaccamento, il bambino è pronto a staccarsi perché avrà ormai raggiunto la capacità di separarsi senza disagi dalla figura di attaccamento».

Ma il dato più importante da tenere presente è un altro: « I primi 5 mesi dopo il parto invece sono delicati e importanti», fa presente l’esperta. « La madre che lavora deve poter contare sulla massima flessibilità. Occorre quindi che lo Stato aiuti le aziende a prevedere misure che le consentano di lavorare da casa, o di fare affidamento su asili nidi aziendali. Ricordiamoci: sostenere una donna che diventa madre non significa solo realizzare il suo benessere e quello del figlio, ma - conclude Silvia Da Dat - anche contribuire concretamente a una società più sostenibile».