Terzo genere. Qualche considerazione dopo le parole di Tamaro e i giudici di Bolzano
Giudici soggiogati dalla cultura gender e famose scrittrici convinte che i problemi dell’identità di genere siano un fatto del tutto naturale, da affrontare senza allarmismi, basta che gli adolescenti nel momento della crisi non cadano preda dei “falchi del gender”. I giudici vittime loro malgrado della perfida lobby che vuole sconvolgere le nostre certezze sul maschile e sul femminile sono quelli del Tribunale di Bolzano.
La famosa scrittrice è Susanna Tamaro. Nei giorni scorsi l’una e gli altri si sono pronunciati, secondo le rispettive categorie espressive, sui problemi dell’identità di genere muovendo da un dato di realtà. E quindi, pur attestandosi su posizioni apparentemente contrastanti, tutti hanno la loro parte di ragione. Ma fino a un certo punto. Vediamo perché.
Cominciamo da Bolzano. È passato quasi sotto silenzio la decisione del Tribunale altoatesino che nei giorni scorsi ha chiesto alla Corte costituzionale di pronunciarsi sull’esistenza di un terzo genere, oltre al maschile e al femminile. Secondo l’ordinanza del Tribunale di Bolzano, costruita sulla base di riferimenti scientifici e giuridici di altri Paesi europei e sullo stesso diritto della Ue, dovrebbe essere ormai un dato acquisito il fatto che le persone di genere non binario – che non si sentono cioè né maschi né femmine - esistono. E di questo dato, dicono in sostanza i giudici, il diritto italiano dovrebbe prendere atto. Per questo obiettivo il Tribunale ha sollevato due questioni di costituzionalità sulla base di un caso promosso da Aurel (nome di fantasia), una persona non binaria sudtirolese che studia in Austria, la quale richiede il riconoscimento legale del proprio genere non binario in Italia, seguendo l'esempio di altri Paesi.
La prima questione riguarda l'impossibilità, secondo il diritto italiano, di attribuire ad una persona che non si identifica né nel genere maschile né in quello femminile, una terza opzione. Con la seconda si lamenta l'obbligo per le persone trans di ottenere una sentenza per interventi terapeutici sul proprio corpo.
Oggi il nostro assetto normativo non consente al giudice di accogliere la domanda di una persona che chiede il riconoscimento della propria condizione non binaria. Da qui la necessità di intervenire con una dichiarazione di incostituzionalità". Contestualmente, "si chiede anche di far venir meno, in quanto incostituzionale, la normativa che impone alle persone trans - e solo a queste - di dover avviare e attendere l'esito di un complesso e costoso iter giudiziario per fare quanto è altrimenti possibile a tutte le altre persone che devono seguire un percorso terapeutico: rivolgersi direttamente alle strutture sanitarie".
"Non sono attivista, ma spero che questa iniziativa possa portare il diritto italiano a capire che le persone non binarie esistono. E chiedono di essere riconosciute come tali", ha dichiarato Aurel che ha ringraziato la sua famiglia per il sostegno e "anche quelle persone che, senza saperlo, ma raccontando le loro storie online, mi hanno aiutato a capire chi io fossi".
Facile affermare che anche Aurel, come migliaia di altre ragazze e ragazzi – nel nostro Paese il dato scientifico parla di una percentuale dello 0,9 per mille – pensano di essere alle prese con una situazione che si chiama incongruenza di genere, ma forse – sostengono alcuni - sono soltanto vittime di un dilagante contagio sociale. Quello innescato dalla cultura gender che spinge giovani e adulti a rifiutare la propria identità per infoltire le schiere transgender e per sconvolgere il quadro dei valori familiari. L’obiettivo di questa mostruosa macchinazione ordita dalla lobby del cosiddetto gender non è ben chiaro a nessuno. Ma additare un nemico occulto, un grande vecchio che trama contro le nostre certezze più consolidate, rende tutto più semplice e giustifica tante iniziative. Per esempio, l’esistenza di associazioni e di movimenti che ormai da troppi anni fanno dell’antigenderismo militante e rabbioso l’unica ragione della loro sopravvivenza.
Nel tranello dell’accusa a senso unico che dimentica la varietà e la complessità delle situazioni sembra caduta anche Susanna Tamaro che qualche giorno fa sul “Corriere della Sera” ha raccontato la sua esperienza di ragazzina alle prese con la disforia di genere. Problema che, sostiene, avrebbe superato in modo naturale, dopo mesi di angoscia, semplicemente ascoltando la voce dei suoi ormoni adolescenziali così che la disforia a tempo debito si sarebbe dissolta come un fantasma alle prime luci dell’alba. Fosse capitato in questi anni, anche lei avrebbe rischiato di cadere nelle mani dei “falchi del gender” – scrive proprio così – quelli che medicalizzano i bambini e convincono i loro genitori ad affrontare l’incongruenza di genere con terapie ormonali e bloccanti della pubertà. Ipotesi che Tamaro non prende neppure in considerazione per affermare in modo perentorio: “O sei maschio, e devi essere maschio maschio o sei femmina e devi essere femmina femmina”. Purtroppo, la realtà è più complessa e più lacerante di quella che vorrebbe Tamaro. Non tutti, sfortunatamente, possono liberarsi di quel macigno che pesa nell’anima e cancella il gusto del futuro. Capita, certo, almeno in otto-nove casi su dieci. Ma a quel dieci, venti per cento che non ce la fa, cosa diciamo? Raccontiamo loro che le psicosi, i gesti di autolesionismo, l’anoressia, le spinte suicidarie sono soltanto il frutto di una suggestione? Le semplificazioni non sono mai servite per risolvere i problemi più difficili.
Forse, più opportunamente occorre ascoltare i genitori di questi ragazzini e, soprattutto, ragazzine. Cercare di comprendere la loro angoscia, la loro difficoltà nella ricerca di un punto di equilibro tra realtà e ideologia, tra esperti autentici, che hanno a cuore davvero la sorte dei loro figli e figlie, ed “esperti” che si piegano senza troppi interrogativi alle indicazioni del politicamente corretto (ci sono anche questi). La scienza ha certamente commesso e tuttora commette degli errori. Chi ha sbagliato, se ha sbagliato – all’ospedale Careggi di Firenze e in qualsiasi altro ospedale - ne dovrà dare conto. Ma non si risolverà una questione che ha implicazioni tanto vaste da comprendere biologia, genetica, endocrinologia, psicologia, antropologia, spiritualità e altro ancora, semplicemente negandola. O assicurando che “tanto tutto si risolverà”.
Tra percorsi che pretendono sempre e comunque di essere “affermativi” e il negazionismo che rifiuta addirittura di riconoscere l’esistenza di una situazione problematica, c’è una via di mezzo. Si chiama prudenza, attesa, verifica. In linguaggio ecclesiale diremmo discernimento. Ogni situazione è diversa dall’altra. E occorre una valutazione capace di guardare in faccia la realtà. La terapia ormonale è uno sbocco considerato opportuno per una minoranza ristrettissima di casi. I bloccanti puberali - almeno secondo quanto riferiscono gli specialisti – sono destinati per fortuna a pochissimi casi, in situazioni estreme, quando davvero non c’è altra soluzione. E forse anche quell’uso residuale andrebbe cancellato. Ma è un dibattito scientifico che lasciamo agli esperti. Sappiamo però che ogni situazione merita di essere esaminata e affrontata per quello che è. E ogni dato di realtà va rispettato, non assolutizzato. Sarebbe un po’ miope credere che per tutti ci sia lo stesso esito. Non è così, purtroppo,
L’esigenza di non assolutizzare un dato di realtà, trasformandolo in riferimento valido sempre e comunque, può essere richiamata anche nel caso sollevato dai giudici di Bolzano. Può essere vero che, per alcune persone, il terzo genere è un concreto stato esistenziale. Ma “transitare” dal femminile o dal maschile a un genere non binario non è mai una scelta semplice, rapida, indolore. Gli esperti spiegano che la condizione transgender, quando accertata in modo sereno dopo percorsi psicoterapeutici adeguati e mai affrettati, con il contributo di specialisti competenti – quelli che definire “falchi del gender” sarebbe offesa a decenni di studi e di ricerche – non può essere considerata patologia ma condizione permanente. Si tratta di mettere a fuoco questi casi e trovare il modo per accompagnare queste persone, oltre gli stereotipi e i pregiudizi, a far chiarezza dentro di sé, Ecco perché il percorso di “affermazione di genere” non ha mai uno sbocco già scritto, uguale per tutti. Può tradursi nella presa di coscienza della propria condizione non binaria, ma anche nella scoperta che quel disagio interiore non nasceva da un’identità di genere irrisolta ma da altri problemi legati, per esempio, alla sfera psicologica ed esistenziale. Oppure dal contagio sociale che talvolta, bisogna ammettere anche questo, esercita un condizionamento potente.
Comprendere bene tutto questo richiede tempo e pazienza. Banalizzare non è consentito, visto che siamo di fronte a scelte che cambiano la vita e il corpo, in modo talvolta irreversibile. Questi ragazzi, queste ragazze, questi genitori hanno il diritto di essere accompagnati/e in modo serio e prudente perché la loro scelta, certamente intima e personale, ha però risvolti sociali e ricadute culturali non trascurabili. Basti pensare a cosa succede già oggi nelle classi dove ci sono ragazzi/e che scelgono di avvalersi della cosiddetta carriera alias, al clamore suscitato, agli interrogativi cui sono chiamati a rispondere gli insegnanti ma anche i compagni di classe. Insomma, pensare che tutte queste situazioni si possano affrontare con una dichiarazione “privata” come richiesto in sostanza dai giudici di Bolzano, sembra negare la dimensione sociale del problema. Non basta “riconoscere il genere non binario” con una modifica legislativa come lasciano intendere i giudici altoatesini con la loro richiesta alla Corte Costituzionale. Le istituzioni pubbliche hanno il dovere – e anche il diritto perché si tratta di una situazione che investe il bene comune – di accompagnare queste persone a comprendere la qualità e l’essenza della propria condizione di genere. E devono farlo in modo attento, competente, strutturato, affrontando la questione senza posizioni ideologiche né dell’una né dell’altra parte. Impensabile anche, quando si tratta di persone minorenni, che i genitori vengano tagliati fuori da queste scelte, come oggi avviene spesso nel caso dei regolamenti alias nelle scuole superiori.
Accendere una luce nel buio della propria identità tormentata è qualcosa di più importante e di più ampio rispetto a un problema sanitario, ma anche a una questione giuridica. Riguarda tutta la persona nella sua integralità. E se questa persona è un/a giovanissimo/a che sta allineando i mattoni del suo futuro, l’assillo che sconvolge la sua psiche, la sua anima, riguarda tutti noi. Anche se ci imbarazza, anche se si tratta di una questione che rimette in forse certezze che pensavamo consolidate per sempre, non ci è consentito stare a guardare.