Capire la Chiesa. Il Sinodo spiegato con le parole della famiglia
La foto finale del Sinodo 2023
Sinodalità, bella espressione ma concetto non sempre immediato. Proviamo a capire: « La sinodalità può intendersi come camminare dei cristiani con Cristo e verso il Regno, insieme a tutta l’umanità: orientata alla missione, essa comporta il riunirsi i assemblea al diversi livelli della vita ecclesiale, l’ascolto reciproco, il dialogo, il discernimento comunitario, la creazione del consenso come espressione del rendersi presente di Cristo vivo nello Spirito e l’assunzione di una decisione in un corresponsabilità differenziata».
Così il Documento di sintesi (parte I, Il volto della Chiesa sinodale) che, qualche paragrafo prima, parla anche di fraternità, comunione, fiducia reciproca. Quindi tutti i valori della vita familiare. Forse, senza pretendere di volersi sostituire ai padri e alle madri sinodali, è proprio questo il termine più immediato e più efficace per definire la sinodalità. E quindi possiamo tranquillamente tradurre: stile sinodale uguale stile familiare. È proprio così. Dove, se non in una famiglia, si cammina insieme, si è orientati alla missione (in tutta l’ampiezza e la profondità dei suoi significati), ci si riunisce insieme ai diversi livelli, si praticano ascolto e dialogo reciproco, si esercita il discernimento comunitario e si esprime la “creazione del consenso in Cristo” in uno stile di “corresponsabilità differenziata”?
Lessico un po’ complesso che, nell’ottica delle dinamiche familiari, potremmo rendere così: ogni membro della famiglia – e quindi della Chiesa – si fa carico della crescita umana e spirituale dell’altro, secondo diversi livelli di responsabilità e di impegno. I genitori accompagnano la crescita dei figli. Ma a loro volta mamme e papà crescono, in attenzione, consapevolezza, prudenza e tanto altro ancora, proprio grazie alla presenza dei figli. Ecco spiegata, in chiave domestica, la “corresponsabilità differenziata”. Raccontato così il Sinodo sulla “Chiesa sinodale” non solo è più comprensibile ma, parlando il linguaggio stesso della famiglia, diventa qualcosa di molto vicino alla realtà della vita familiare, alle sue caratteristiche, ai valori che incarna e che ne costituiscono la cifra più tipica.
Proprio come la Chiesa che, sulla spinta di papa Francesco torna alla radicalità evangelica, così la famiglia accoglie, ascolta, dialoga, sceglie e decide (discernimento), stabilisce naturalmente legami di corresponsabilità e di compartecipazione. Cioè cammina insieme. Se non fa questo, se non è pienamente e convintamente sinodale, non è una famiglia, tantomeno una famiglia cristiana. Ed è vero anche il contrario. E cioè se una Chiesa sinodale non è pienamente e convintamente familiare, è qualcosa di molto distante dal profilo evangelico che dovrebbe costituirne l’essenza, la guida, l’ispirazione. Ecco perché è utile riprendere in mano il Documento finale per cogliere i principali riferimenti di questi richiami familiari e per leggere in filigrana il ruolo e l’importanza della famiglia nella recente assemblea.
Sempre nella prima parte, a proposito delle questioni da affrontare, si esorta a far emergere «le molte espressioni della vita sinodale in contesti culturali in cui le persone sono abituate a camminare insieme come comunità. In questa linea si può affermare che la pratica sinodale fa parte della risposta profetica della Chiesa a un individualismo che si ripiega su se stesso, a un populismo che divide, a una globalizzazione che omogenizza e appiattisce».
Qual è l’ambito più immediato e più naturale per educare a “camminare insieme” come comunità? La famiglia, evidentemente, che vive e cresce se è testimonianza diretta, appunto, di vita comunitaria, se riesce a superare l’individualismo dei suoi membri, se coglie nella globalizzazione spunti fecondi per guardare fuori dalla porta di casa, mettersi in discussione e crescere in capacità di confronto e in slanci solidali, non certo per appiattirsi sul peggio e per assumere stili di vita banalizzanti.
Qualche paragrafo dopo, nel capitolo “proposte”, si dice che «è emersa con forza la necessità che la cultura sinodale diventi più intergenerazionale, con spazi che permettano ai giovani di parlare liberamente con le loro famiglie, con i loro coetanei, con i loro pastori, anche attraverso i canali digitali». La vita familiare è naturalmente e inevitabilmente intergenerazionale. Modelli culturali e difficoltà concrete, spesso legati a problemi economici e abitativi, impediscono oggi alla maggior parte delle famiglie la convivenza di nonni e nipoti, ma lo scambio e la solidarietà generazionale – seppure a distanza – non solo si possono custodire ma rappresentano la bellezza e la forza della rete familiare. Quando in una famiglia si riesce a mantenere viva questa dinamica virtuosa, in cui cioè il rapporto tra le generazioni si concretizza in un flusso positivo di confronto, dialogo, mutuo aiuto, rispetto, considerazione, responsabilità, il vantaggio si estende dai piccoli ai grandi in modo sensibile. E anche se – com’è inevitabile - ci sono incomprensioni, momenti difficili, tensioni e qualche volta c’è la tentazione di “interrompere le comunicazioni”, si tratta di rapporti che comunque aiutano crescere, a superare visioni parziali, ad affrontare le crisi con la voglia di andare oltre e di rinsaldare i vincoli. In un clima così i giovani imparano a “parlare liberamente”, anzi a fare del dialogo e del confronto un momento di maturazione e di consapevolezza.
Ma senza la scuola della famiglia tutto diventa più difficile e appare quasi impossibile promuovere quella “cultura sinodale” che è premessa decisiva per la crescita di qualsiasi comunità, dentro e fuori le porte di casa. Riferimenti alla realtà familiari anche nel paragrafo dedicato all’iniziazione cristiana – la prima scuola di fede è proprio la famiglia – e poi quando si invita ad assumere la logica catecumenale per la preparazione al matrimonio. Il tema famiglia viene affrontato in modo più diretto nella seconda parte del Documento ( Tutti discepoli, tutti missionari). Al punto “c” delle convergenze si dice: « La famiglia è colonna portante di ogni comunità cristiana. I genitori, i nonni e tutti coloro che vivono e condividono la loro fede in famiglia sono i primi missionari. La famiglia, in quanto comunità di vita e di amore, è un luogo privilegiato di educazione alla fede e alla pratica cristiana, che necessita di un particolare accompagnamento all’interno della comunità. Il sostegno è necessario soprattutto per i genitori che devono conciliare il lavoro, anche all’interno della comunità ecclesiale e a servizio della sua missione, con le esigenze della vita familiare». Meglio di così non si potrebbe!
Anche tutti i paragrafi successivi, quelli sul laicato, parlano il linguaggio della famiglia. Spiace un po’ che proprio qui, quando si fa riferimento ai “fedeli laici” che sono educatori, animatori spirituali, catechisti, che «partecipano a vari organismi parrocchiali e diocesani», che promuovono l’impegno nell’arte, nella cultura, nella vita pubblica, non si dica esplicitamente che la maggior parte di quei “laici” sono anche madri e padri. E che, anzi, l’impegno ecclesiale dei “laici” – che si riconosce talvolta «ignorato o sottoutilizzato » – nasca molto spesso in relazione e come diretta conseguenza dell’impegno familiare. Poi però, nella parte dedicata alle “proposte” il Documento si riabilita con la coraggiosa ipotesi di «istituire un ministero da conferire a coppie sposate impegnate a sostenere la vita familiare e ad accompagnare le persone che si preparano al sacramento del matrimonio ». Vedersi riconosciuto in modo ufficiale un mandato pastorale sarebbe davvero un bel fiore all’occhiello, per tante coppie che da anni si spendono per costruire percorsi di preparazione alle nozze in sintonia con una situazione sociale e culturale sempre più complessa. A patto che questo nuovo “ministero” preveda anche momenti di formazione adeguati a un compito sempre più difficile e sia messo al riparo dal rischio clericalizzazione.
Tutto il paragrafo sulle donne “nella vita e nella missione della Chiesa” meriterebbe un approfondimento anche nella prospettiva familiare, soprattutto nei passaggi in cui si sottolinea l’aspetto della maternità e il ruolo femminile nella trasmissione della fede. Oppure dove si depreca «il maschilismo e un uso appropriato dell’autorità» che «continuano a sfregiare il volto della Chiesa» e – si potrebbe aggiungere – quello della famiglia. Ma si tratta di un argomento troppo importante per sintetizzarlo qui in poche righe e quindi rimandiamo alle prossime settimane. Come un approfondimento specifico, che qui non possiamo affrontare, merita il paragrafo su Discernimento ecclesiale e questioni aperte per quanto riguarda i temi “connessi con la corporeità e la sessualità”, ma anche per “le questioni relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale”.
Se da una parte si riconosce che «le categorie antropologiche che abbiamo elaborato non sono sufficienti a cogliere la complessità» connessa a queste situazioni, d’altra parte andrebbe meglio specificato il ruolo che le famiglie devono giocare in queste situazioni che sono sempre di grande delicatezza e talvolta di profonda sofferenza. Anche in questo caso torneremo a breve a riflettere su come la sinodalità si possa esprimere «come disponibilità a pensare insieme a servizio della missione, nella diversità delle impostazioni, ma nell’armonia degli intenti».