Dati Istat. Sempre meno famiglie con figli. Colpa anche del maschilismo?
In Italia sempre più mamme sole
In un report pubblicato nel marzo 2022 l’Istat ipotizzava l’evoluzione familiare del nostro Paese e immaginava, sulla base di proiezioni scientifiche, con quale tipo di famiglia saremo chiamati a fare i conti nel 2040. La tipologia prevalente dovrebbe essere, con quasi il 40 per cento del totale, quindi oltre 6 milioni di nuclei, la famiglia “unipersonale”, neologismo contraddittorio perché nega i due fondamenti su cui si fonda la famiglia stessa, la comunione di vita e di amore. Tra le altre previsioni di quel report c’era il crollo delle coppie con figli che, tra circa 16 anni, dovrebbero scendere a 6 milioni e 300mila.
Nel nuovo report diffuso stamattina, che fa il punto sui nuclei familiari sulla base dei censimenti 2011-2021, l’Istat conferma queste tendenze, non più su una base previsionale ma retrospettiva che, in qualche modo, rende ancora più complesso e preoccupante il quadro con cui confrontarci. Ci dice, tra tanti altri dati, che dal 2011 al 2021 le coppie con figli conviventi si sono ridotte di oltre 1 milione e 200mila, con una tendenza al calo ancora più forte rispetto all’inizio del nuovo millennio (-507 mila dal 2001 al 2011).
Sono diminuite anche le coppie senza figli conviventi (-3% rispetto al 2011) e sono aumentati invece i nuclei monogenitore, ovvero padri e madri soli con uno o più figli, che sono passati da circa 2 milioni 650mila del 2011 a più di 3 milioni e 800mila nel 2021 (+44%).
Nel complesso, nel 2021, i nuclei familiari censiti sono stati 16 milioni e 438mila in calo rispetto al Censimento del decennio precedente (erano 16.648.813) e di circa 300mila unità in più rispetto al Censimento del 2001.
Ciò che cambia negli ultimi decenni non è tanto la consistenza, quanto le modalità con cui si vive in famiglia: alcune forme si consolidano, altre mostrano un declino e altre ancora aumentano, come le coppie dello stesso sesso (nel 2021 quasi 10mila). Diminuiscono in modo significativo le coppie con figli - per il combinato disposto crollo dei matrimoni e della natalità - in misura minore quelle senza figli e crescono i nuclei monogenitore (padri e madri soli con uno o più figli).
Nello specifico, sono diminuite di oltre 1 milione e 200mila le coppie con figli, passate dagli 8.766.690 del Censimento 2011 ai 7.537.874 del 2021, confermando la tendenza al calo già evidenziata all’inizio del nuovo millennio (erano oltre 9 milioni e 200mila). Tuttavia, nel 2021 rappresentavano ancora il tipo di nucleo prevalente con il 45,8% del totale dei nuclei familiari (erano il 52,7% nel 2011 e il 57,5% nel 2001). Dal Report sulle previsioni del 2040 sappiamo che questo primato, sempre più esile, dovrebbe passare alle famiglie “unipersonali”
Con il Censimento 2021 sono state rilevate 5.078.312 coppie senza figli (30,9% del totale dei nuclei familiari), con un decremento del 3,0% circa rispetto a 10 anni prima (5.230.296).
I nuclei monogenitoriali, sempre nel 2021, ammontavano a 3.822.469 ed erano costituiti per la gran parte (77,6%) da madri sole che vivono con i propri figli. Madri sole con figli che rappresentavano il 18,1% del totale dei nuclei familiari, mentre i padri con figlio/i erano il 5,2%. Nel corso del decennio preso in esame sono aumentati sia i monogenitori di sesso femminile che quelli di sesso maschile, compensando in parte la riduzione delle coppie. Le madri sole nel 2021 erano 2.967.420, con un incremento del 35,5% rispetto al 2011 (erano 2.189.201), il numero di padri soli è pari a 855.049 con una variazione dell’85,0% circa (462.626 nel 2011).
Tra gli altri dati interessanti l’aumento del numero di figli maggiorenni che vivono con i genitori (58,9% dei casi nei nuclei con un figlio unico); la crescita statistica di coppie over 65; la nuova impennata di separazioni e divorzi per cui oltre la metà dei genitori soli risulta separata o divorziata – ma c’è anche un 22% di monogenitori che non si è mai sposato – e, infine , il focus sulle città metropolitane che vede le coppie senza figli concentrate in particolare nei capoluoghi nel Nord (nell’ordine Torino, Genova, Bologna e Milano) e quelle con figli nel Centro-Sud (in ordine decrescente, Roma, Cagliari, Catania, Napoli).
Se questi sono i dati e la situazione delle tipologie familiari con cui saremo chiamati a confrontarci nei prossimi vent’anni, qualche riflessione si impone. Per quanto riguarda le cause di queste trasformazioni che allontanano la nostra idea di famiglia dai modelli tradizionali, l’Istat elenca mutamenti nelle forme di vita familiare, contrazione della fecondità, aumento delle separazioni e dei divorzi, quindi crescente instabilità delle relazioni di coppia, prolungamento della durata di vita.
Tutto giusto. Possiamo aggiungere ancora l’inefficacia delle politiche familiari e delle iniziative a favore della natalità - su cui abbiamo scritto fiumi di parole – ma anche due aspetti che invece vengono raramente accostati alle trasformazioni familiari: l’emergenza educativa e il maschilismo. C’entrano qualcosa? Eccome.
Se la famiglia si disgrega, se i figli nascono sempre meno, se i giovani non desiderano più sposarsi non è sempre colpa della politica e dei provvedimenti fiscali poco favorevoli. Il fenomeno è così globale da imporre un inquadramento più ampio che coinvolge il clima culturale nel suo complesso e le trasformazioni antropologiche nello specifico. Proviamo a capire. All’interno di famiglie sempre più fragili e isolate, quelle appunto dove è rimasto un genitore solo, in 8 casi su 10 una mamma costretta a lavorare, mandare avanti la casa e prendersi anche la croce di un ruolo paterno che non le compete, aumentano inevitabilmente anche le difficoltà educative. I figli in carico ai servizi sociali nel nostro Paese sono oltre 90mila, ma potrebbero essere anche il doppio se la presenza dei servizi fosse distribuita in modo uniforme e capillare. Prova di una crescente difficoltà nell’affrontare i disagi dei figli in una società complessa come la nostra. Il passaggio dal codice normativo al codice affettivo – come abbiamo più volte scritto – obbliga a una revisione educativa che disorienta profondamente i genitori, tanto più se sono soli, senza aiuti, senza strutture pubbliche di supporto. Quanto conta allora il fallimento di tanti progetti educativi, in un quadro di crescente conflittualità familiare, agli occhi di tanti ragazzi che prima o poi dovranno prendere la decisione di formare una famiglia, e di come formarla?
La consapevolezza delle sofferenze sopportate, ma anche le sollecitazioni negative ricevute dal genitore solo a cui i piccoli sono stati affidati – non entriamo nel merito dell’alienazione parentale che è prassi frequente anche se non può essere definita sindrome – finiscono per allontanare in modo drammatico qualsiasi previsione relazionale fondata su un impegno a tempo indeterminato. E allora, si chiede un numero crescente di ragazzi, perché dare vita a una famiglia se gli esempi sono così negativi e non esiste più uno sguardo complessivo sul senso della vita e delle generazioni?
Ma abbiamo parlato anche di maschilismo. In questi giorni ne abbiamo discusso tanto, ma qualche osservazione sul rapporto tra il paternalismo tossico e trasformazioni familiari si impone. Quell’atteggiamento che, almeno formalmente, dovrebbe essere il custode arcigno delle forme tradizionali della famiglia, ne è invece il peggiore nemico. Il maschilismo contiene il germe di ogni conflitto, non solo in ambito familiare. Nella violenza contro la donna si sviluppa la stessa dinamica che prepara e scatena la guerra: l’emarginazione, il disprezzo, il possesso, l’avidità, l’aggressione, la distruzione della vita. La “non cultura” del maschilismo nasconde un delirio di onnipotenza e una volontà distruttiva che rivela la gigantesca debolezza e l’immaturità di troppi uomini, mariti e padri.
Accantonare il maschilismo significa invece avere cura delle relazioni in modo coerente e credibile, significa preparare la pace nella famiglia e, quindi, nella società. Significa educare al rispetto e alla tolleranza, all’inclusione e alla diversità. Perché la prima “diversità” che ogni maschio deve affrontare è quella relativa al femminile. Se questo processo educativo non viene concretizzato, soffocando sul nascere ogni velleità di predominio fisico, psicologico o funzionale, i germi del maschilismo finiranno per proliferare. Purtroppo, non siamo stati ancora in grado – né a livello sociale come dimostra il numero inaccettabile di femminicidi, né a livello pastorale – di avviare una riflessione seria sulle conseguenze provocate dal maschilismo nelle dinamiche familiari. Ma, se ci pensiamo bene, senza pregiudizi, senza stereotipi, non possiamo che ammettere le ferite insanabili causate da questo virus esiziale nei rapporti di coppia e nei ruoli genitoriali. E non resta che una cosa da fare: correre ai ripari, con tutte le forze a nostra disposizione.