Neuropsichiatra. «Se vostro figlio "si fa le canne" serve dialogo, non punizioni»
Qualche mese fa il Ministero per le politiche giovanili ha pubblicato una relazione molto dettagliata circa l’utilizzo delle cosiddette “droghe leggere” fra i giovanissimi. Che cosa ne è venuto fuori? A un primo sguardo è emerso che quasi il 24% degli studenti ha consumato cannabis almeno una volta nella vita e 458mila 1519enni (quasi il 18%) l’hanno usata nel corso dell’ultimo anno. Quasi un terzo degli studenti, in questa fascia di età, ritiene di poter reperire facilmente soprattutto la cannabis, il cui consumo è spesso esclusivo e si accompagna raramente ad altre sostanze. Quando si inizia? L’età di primo uso si attesta tra i 15 e i 16 anni. Le domande che tutti i genitori inevitabilmente si pongono sono sempre le stesse: ma queste sostanze fanno davvero male? Che conseguenze si possono avere sul piano organico e, soprattutto, su quello psicologico? E ancora: mio figlio andrà incontro a gravi forme di dipendenza? Davvero dallo spinello si rischia di passare facilmente alle droghe pesanti? Prima di interpretare con eccessivo allarmismo questi problemi, è opportuno fare il punto con un neuropsichiatra di fama internazionale, Piero Barbanti, anche responsabile del Centro diagnosi e terapia della cefalea e del dolore presso l’IRCCS San Raffaele Pisana.
Professore, ritiene che questi dati debbano preoccupare le famiglie? Come andrebbero letti?
Diamo prima uno sguardo dettagliato ai dati rilevati per non creare ulteriori paure nelle famiglie. Quel che ci interessa, invece, in questo argomento, è cercare di comprendere quali sono gli errori dei genitori, prim’ancora che dei ragazzi. Il consumo di cannabis è spesso legato alla necessità di coping, che in psicologia indica l’insieme delle risposte psicologiche messe in atto da una persona per fronteggiare alcuni problemi emotivi molto comuni. Le motivazioni più frequentemente offerte dai ragazzi, oltre al semplice “svago”, sono la riduzione dello stress (89,6%) e degli stati di depressione e ansia (41,7%), nonché il miglioramento del sonno (62,1%) e delle capacità di socializzazione (33,9%). Al di là delle percentuali, questi dati ci offrono uno spaccato interessante sul cambiamento di prospettiva da parte dei giovanissimi: “Mi faccio una canna per star più tranquillo e per tenere a bada le mie ansie”. Questa frase ci svela un evidente processo ansiolitico, che diventa una celebrazione solitaria. Questo processo innesca, a sua volta, una dipendenza molto simile a quelle che tanti adulti hanno degli psicofarmaci: problema-soluzione. Ovviamente quell’utilizzo solitario, da cui dovrebbe nascere la “cura” delle proprie ansie e della propria rabbia, non è affatto la risposta risolutiva, ma solo la dimostrazione di una “dissonanza interiore”, già di per sé connaturata nel processo di crescita.
Da che cosa nasce questa “dissonanza”? Come potrebbero i genitori aiutare maggiormente i figli?
Nel momento in cui la cannabis diventa una celebrazione solitaria e non un rito trasgressivo di gruppo – come lo è stato per la generazione di chi era giovane negli anni ’60-’70 – si rompe quello schema sociale secondo cui l’utilizzo di droghe leggere è un momento legato al gruppo; viene fuori l’immagine di una ragazza o di un ragazzo che sente concretamente una voragine affettiva, determinata dall’analfabetismo emotivo. Gli adolescenti, anche fra coloro che non fanno uso di cannabis, oggi sono sempre più incapaci di creare immagini, di far ricorso alla creatività per descrivere un’emozione o per placare quell’emozione. Si nutrono di immagini preconfezionate che, però, non colmano quel desiderio di star meglio. In fasi di down, si rivolgono a droghe a basso costo oppure a energy drink per avere o un effetto di rilassamento o un’iperattività fatta di stimoli che non vedono – e che non sanno vedere - nella quotidianità.
Da cosa derivano queste mancanze?
Da altre mancanze. Sempre più spesso i genitori chiedono ai figli, rientrando da scuola, “Che cosa hai fatto? Che voti hai preso?” e invece la prima domanda di una madre o di un padre dovrebbe essere: “Come stai? Sei felice? Ti alzi al mattino con la gioia di stare al mondo?”. Spesso non sappiamo se i nostri figli sono felici, quale musica ascoltano, che cosa vogliono dirci con quella musica, con quei tatuaggi sul corpo, con quelle abitudini incomprensibili che ci infastidiscono.
E nel genitore scatta l’ansia, e poi i divieti, i litigi, le punizioni. Dove sta l’errore?
La psicanalisi e la pedagogia hanno detto tantissimo sulla risposta “ostinata e contraria” che generano i divieti senza il dialogo. Questo non vuol dire affidarsi alla società del permissivismo, del sì perenne, che peraltro genera nell’adolescente un ulteriore effetto di smarrimento rispetto alla genitorialità. Padre e madre devono avere una posizione unica, che non è la condanna o l’allarmismo. L’atteggiamento sano è quello che genera colloquio e non segretezza e chiusura. L’atteggiamento sano è quello di chi cerca di capire le emozioni.
Probabilmente i genitori dovrebbero tener maggiormente conto del fatto che gli adolescenti, oggi, sono figli di un periodo sempre più dominato dal lessico della paura (dalla pandemia alla guerra). Questo linguaggio genera in noi tutti picchi di down emotivi, sensazioni di smarrimento, ansie. Magari noi tutti, e prima di tutti gli altri i ragazzi e le ragazze, abbiamo e hanno bisogno di poter parlare o di stare in silenzio liberamente con chi sa stare accanto alle loro emozioni, senza utilizzare il giudizio o la condanna.
Certo, ma dobbiamo anche denominare i nostri sentimenti. Una riflessione sociale andrebbe fatta seriamente sia nelle famiglie che nella scuola dinanzi alle emozioni senza nome dei nostri ragazzi. Quell’assurda rincorsa, che peraltro insegniamo come stile di vita, che senso può avere se non ha alcun fine? La civiltà del gareggiare, dell’aver fretta senza chiedersi dove si sta andando, che cosa ha prodotto se non un’inquietudine crescente e un senso di inadeguatezza?