Analisi. Scartare gli anziani. Da dove nasce il ribrezzo per la decadenza?
In occasione del convegno (Il programma completo su: https://eventi.erickson.it/convegno-anziani-2024/Home), Erickson pubblica un instant book a opera di Fabio Folgheraiter - cofondatore di Erickson, già professore di Metodologia del lavoro sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove ha coordinato a lungo i corsi di Laurea triennali nonché i corsi di laurea Magistrale in Servizio sociale nelle sedi di Milano e Brescia – dal titolo Scartati. Alla ricerca del Rispetto nelle pratiche di cura, di cui anticipiamo qui la premessa.
Simone de Beauvoir (1971), al tempo degli ormai quasi dimenticati anni Sessanta, affermava: «I vecchi sono degli esseri umani? A giudicare dal modo con cui sono trattati nella nostra società, è lecito dubitarne». Nonostante i molti progressi in campo medico e sociologico, sia teoretici che effettivi, quest’antico interrogativo rimane attuale. Esso fotografa un sentimento ancora prevalente nelle nostre società cosiddette sviluppate (sempre più lanciate verso l’utilitarismo, il consumismo, l’edonismo, il narcisismo, il salutismo, il nichilismo, l’abilismo, eccetera). È l’atteggiamento secondo cui, se l’essere umano non è capace di produrre e consumare a pieno ritmo, se non serve alla prosperità economica generale misurata dal PIL, sarebbe ovvio (che altro se no?) considerarlo superfluo o, come denuncia Papa Francesco, uno scarto. Non più un vero essere umano, degno di esprimersi e di essere ascoltato. Magari un essere umano sì — ci mancherebbe! — ma di serie C.
Lasciando in disparte l’ossessione liberista per il denaro, scavando più a fondo, troviamo pure, in ogni società, non solo in quelle a sfondo calvinista, un fenomeno — un istinto, si potrebbe dire — ancor più radicale: l’ammirazione incondizionata per ogni eccellenza. Le persone splendide, che esibiscono i loro punti di forza — siano la salute, la forza, il denaro, l’intelligenza, la bellezza, la bontà, ecc. — esercitano su di noi un’attrazione quasi ipnotica: ci piacciono! Neppure sforzandoci saremmo capaci di resistere loro. Ancora meno resisteremmo qualora i destinatari della nostra ammirazione fossimo… noi stessi. Poco male in ciò. Ammirare i modelli è una pulsione «troppo umana», direbbe Nietzsche. Rigirando tuttavia la medaglia, sul retro di un tale incantamento, troviamo la… muffa. Parliamo dello speculare sottile ribrezzo verso ogni decadenza. I vecchi, i malati, i deboli, i poveri, gli emarginati, i devianti — in generale chiunque mostri difficoltà nel vivere — ci inducono spesso istintiva pena, e pure a volte un filo di poco cristiano disprezzo (Bernardini, 2022).
Suprematista o igienista può essere chiamato tale sentimento. Nella misura in cui il nostro animo lo avverte, esso resta indicibile: corre in genere «al di sotto del linguaggio» (Natoli e Semeraro, 2023, p. 9). Di tutte quelle innate repulsioni in fondo un poco ci vergogniamo, per fortuna. Esse, tuttavia, hanno
radici profonde. Fanno spesso capolino tra altisonanti parole che maldestramente tentano
di affermare il contrario. Nella trappola di screditare chi non è conforme alle nostre attese cadiamo tutti indistintamente, giovani e vecchi, operatori della cura e dilettanti. Per primi, noi stessi studiosi dei pregiudizi sociali. Pur edotti da tante teorie contrarie, a volte tendiamo a svalutare persino… i target stessi dei nostri studi. Controprova ne è che, pur dichiarandoci, in quanto esperti, fieri paladini degli ultimi, degli oppressi o, usando termini vetusti, degli handicappati, mai accetteremmo uno scambio alla pari tra la nostra condizione di privilegiati e la loro di emarginati. Mai arriveremmo a pensare davvero che, se noi ipoteticamente fossimo loro, ne saremmo senz’altro… orgogliosi. Alquanto disinvolti, nel disprezzare i deboli, sono più spesso i giovani. Spinti da una comprensibile naturale baldanza — e da una cultura estetizzante devota alla vanità — essi tendono a stupirsi di chiunque non esibisca una cartella clinica a norma come la loro. I giovani si percepiscono forti per essenza (vale
a dire: come atto dovuto) e faticano perciò a trovare un senso all’evidenza che altre persone debbano arrancare e soffrire. Essi sanno bene che le miserie esistono, ma qualificano ogni regressione altrui come una disgrazia. Tanti giovani procedono incuranti che la questione li possa riguardare. Forse non hanno letto, e meno ancora meditato, l’enigmatico cartello esposto all’entrata di un grande cimitero medioevale, di cui parla Norbert Elias (1985) e che così declamava: «Quello che noi ora siamo, voi lo sarete. Quello che voi ora siete, noi lo siamo stati».
Pure in tanti anziani è facile trovare un certo discredito verso il decadimento legato all’età avanzata — sociologicamente indicato con il termine ageism (Folgheraiter, 2022). Persino lo riscontriamo a volte in tanti cosiddetti grandi vecchi, i quali, ben sapendo che «la vecchiaia non esiste» (Augè, 2014), di continuo si chiedono «ma quando e come lo siamo diventati?». Taluni di loro, quasi affetti da una sorta di malattia autoimmune, si rivoltano contro il proprio esistere, e si biasimano mormorando: «Che ci sto ancora a fare al mondo, se il mio corpo si è sformato e le mie gambe non reggono, se non ricordo quasi nulla e persino stento a riconoscere i miei figli? È vita questa?».