Minori. «Rilanciare la cultura dell'adozione»
Maggior impegno da parte delle istituzioni, maggior sostegno alle famiglie adottive anche con l’intervento da parte di equipe multidisciplinare, maggiori sforzi per promuovere la ricerca specifica che, nel nostro Paese, sconta ancora ritardi e pregiudizi. Sono le speranze espresse da Rosa Rosnati, docente di psicologia dell’adozione alla Cattolica di Milano e chairman del congresso internazionale sull'adozione in corso proprio all'Ateneo di Largo Gemelli..
Il crollo dell’adozione internazionale, in atto da anni, e che la pandemia ha accelerato, dipende in maggior misura da un mutamento del quadro politico internazionale (per es. crescita dei sovranismi nell’Est europeo) o dal progressivo indebolimento della famiglia in Occidente, con relazioni sempre più fragili e incerte. quindi meno disponibili a scelte solidali?
Difficile dire quali siano i motivi. Di per sè la riduzione del numero di adozioni potrebbe perfino essere vista in una luce positiva, se a questa corrispondesse una contrazione del numero di bambini in situazione di abbandono o in comunità residenziale. Purtroppo non è così e il numero di bambini in strutture residenziali non solo non è diminuito, ma è addirittura aumentato, anche in Italia. Credo che non solo l’adozione ma anche l’affido dovrebbero essere implementati, in quanto costituiscono una risposta adeguata al bisogno di ogni bambino di crescere in una famiglia, bisogno riconosciuto come diritto in tutte le convenzioni internazionali.
E il quadro internazionale quanto incide?
Certamente incidono le politiche attuate nei Paesi provenienza, volte a prevenire l’abbandono, a sostenere le adozioni nazionali e a limitare il numero di adozione internazionali. Da parte delle coppie, la possibilità di altri percorsi procreativi, sicuramente ha avuto un impatto sulla contrazione dei numeri, ma ricordiamo il numero delle coppie disponibili all’adozione eccede ancora quello di bambini adottabili.
Non crede che la scelta adottiva - nazionale e internazionale - sconti anche una certa indifferenza da parte della politica e della cultura dominante che nell’ultimo ventennio ha promosso con maggior convinzione altre opzioni per risolvere il problema della sterilità, come la fecondazione assistita?
Certamente, i percorsi adottivi sono troppo poco sostenuti È la cultura dell’adozione che chiede di essere rivista e rilanciata. Adottare significa garantire ad un bambino che ne è privo una famiglia come unico contesto di crescita adeguato: si tratta di un compito sociale. Nell’adozione la dimensione sociale insita nell’essere genitori è particolarmente evidente, anche se non è certo assente in generale nell’essere genitori: tutti i genitori svolgono un compito socialmente rilevante, quello di crescere la generazione di domani.
Corretto pensare di sostenere anche economicamente questi percorsi, in modo più incisivo rispetto a quanto si fa oggi?
Certo le sfide legate al percorso adottivo sono tante e per questo è necessario sostenere, anche economicamente, questi percorsi in particolare per quei genitori che accolgono bambini che hanno bisogni particolari e che richiedono particolari e prolungate cure mediche, riabilitazione, interventi di tipo psicologico o psicoterapia: tutto ciò non dovrebbe gravare solo sulle spalle della famiglie.
Si fa abbastanza per sostenere le famiglie nel post-adozione? Più preoccupante la solitudine delle famiglie o l’aumento del numero di minori con varie problematiche provenienti dall’adozione internazionale?
Gli interventi nel post adozione sono a macchia di leopardo sul nostro territorio nazionale, spesso fondati sull’esperienza degli operatori (sicuramente importante) e assai più raramente su ricerche e valutazione degli interventi che dovrebbero garantire un fondamento scientifico all’operatività. Per questo abbiamo bisogno di formare assistenti sociali, psicologici, pediatri, neuropsichiatri e anche insegnanti che abbiano una preparazione specifica su questi temi.
Quando una famiglia adottiva non ce la fa, come si potrebbe intervenire?
Facciamo un semplice esempio: immaginiamo una bambino di 7/8 anni con problemi di aggressività. Le spiegazioni potrebbe essere molteplici: la trascuratezza vissuta in istituto e i traumi subiti nel passato; nel presente la discriminazione, l’essere vittima di bullismo, le difficoltà dei genitori nel gestire questi comportamenti, o ancora potrebbe essere riconducibile alla sindrome fetoalcoolica, ovvero l’esposizione ad alcool e sostanze durante la gravidanza, sindrome che ha effetti a lungo termine sullo sviluppo cognitivo e sul controllo degli impulsi e che probabilmente interessa molti bambini ma di cui ancora si sa troppo poco!
Cioè un impegno quasi impensabile per una famiglia sola, perché non pensare ad interventi più strutturati?
Certo l’adozione richiede un approccio multidisciplinare ed è necessario costituire sul territorio delle équipe multidisciplinari e integrate per poter fare diagnosi accurate e progettare interventi mirati. Ad esempio a Parigi all’Ospedale Sant’Anna, la consultazione per le famiglie adottive è svolta da una équipe integrata: dallo psicologo dello sviluppo, allo psicoterapeuta familiare, al pediatra, dal neuropsichiatra infantile, al pedagogista.
L’altro aspetto fondamentale è la prevenzione: i genitori devono avere una rete di supporto, tutti, a maggior ragione i genitori adottivi. I percorsi di enrichment sono uno straordinario strumenti di formativo e preventivo, di confronto e di arricchimento delle risorse utili per affrontare le sfide legate all’essere genitori in generale e all’essere genitori adottivi in particolare. Anche questo è uno strumento non sufficientemente diffuso. L’adozione è una sfida che non può essere affrontata in solitaria.
Giusto pensare all’adozione per i single, al di quanto previsto dall’adozione "in casi speciali" già contemplata dalla legge? Aveva fatto scalpore due anni fa il caso di Luca Trapanese, il papà single che aveva adottato una bambina Down rifiutata da altre sei coppie prima di lui.
Sappiamo che questo è tema complesso e delicato. La priorità deve essere data all’interesse del minore, anzi di quel bambino specifico perché possa trovare il contesto familiare più adeguato a rispondere ai suoi bisogni specifici che non sono solo quelli di accudito, ma anche di poter rielaborare la sua storia segnata da molte rotture e perdite, (in primis la madre di nascita e tutto il contesto di provenienza) e di rilanciare la fiducia nelle relazioni.
In Italia la ricerca scientifica sull’adozione è piuttosto marginale. Non crede sia necessario puntare con più coraggio sulla formazione di giovani ricercatori capaci di indagare questi temi?
Assolutamente sì, tocca un tema molto trascurato. All’estero ci sono progetti di ricerca imponenti. In Olanda giusto per citarne uno è stata seguita tutta la coorte di bambini adottati in un certo arco temporale (più di 3.000) e le loro famiglie fino ai 40 anni, e una cosa analoga è stata fatta negli Stati Uniti , dove la Rudd Foundation, una fondazione privata, sponsorizza la cattedra di studi sull’adozione e da decenni promuove ricerche, seminari. In Italia le ricerche sono poche e su campioni esigui nonostante i molti sforzi fatti, pur in assenza di fondi di ricerca dedicati. La nostra università si distingue nel territorio italiano sia dal punto della ricerca e del network internazionale, sia perché da anni ha istituito un corso di psicologia dell’adozione e dell’affido (che condivido con la prof.ssa Iafrate), per i futuri psicologi e per assistenti sociali, oltre ad un master interdisciplinare di secondo livello. Non è un caso che proprio la nostra Università abbia ospitato proprio in questi giorni la settimana edizione del convegno internazionale di ricerche sull’adozione (ICAR7), un convegno scientifico internazionale e interdisciplinare di elevato livello, promosso dal Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia, convegno che si svolge per la prima volta in Italia.