Famiglia. Rosina: "Puntare su ceto medio e giovani per uscire dall'inverno demografico"
Alessandro Rosina
Entro il 2070 l’Italia perderà più o meno 11,5 milioni di abitanti. Nei prossimi 25 anni i giovani sotto i 35 caleranno di 4 milioni, le persone oltre i 65 saranno 18-20 milioni, la spesa per pensioni e sanità potrebbe assorbire un quarto del Pil. Il conto della crisi della natalità è qualcosa che raggela. Per comprendere come siamo finiti in un inverno demografico che pare senza fine, e magari per provare ad essere “padroni del nostro destino”, un esercizio utile può essere ripercorrere le tappe che ci hanno condotti fin qui. È quello che i demografi Alessandro Rosina, dell’Università Cattolica di Milano, e Roberto Impicciatore, dell’Università di Bologna, propongono in “Storia demografica d’Italia” (Carocci, 16 euro, 188 pagine), viaggio accurato e per molti aspetti appassionante attraverso le tappe fondamentali e le stagioni che dall’Unità nazionale alla pandemia di Covid-19 hanno plasmato la struttura della popolazione.
Professor Rosina, l’inverno è arrivato dopo quello che nel libro definite l’autunno degli anni Novanta. Ma prima si è avuta la spensierata estate tra i Settanta e gli Ottanta. E prima ancora la primavera del miracolo economico e del baby boom. Guardando al passato, che lezioni si possono trarre?
La prima lezione è che siamo un paese diverso dagli altri. Un paese portato a cercare un equilibrio e poi a mantenerlo il più possibile, a difenderlo a oltranza fronteggiando tensioni e squilibri crescenti, fino a che non interviene un evento perturbatore, come le pandemie e le guerre, o un’azione forzata, come l’impresa dei Mille, la marcia su Roma, Tangentopoli e le condizioni per entrare nell’Unione europea. Ma siamo anche un paese con una demografia che tende a spostarsi come un pendolo in modo accentuato verso gli estremi: dall’alta mortalità infantile dei primi decenni dell’Unità alla maggior longevità; dal baby boom degli anni Sessanta al crollo degli anni Ottanta e Novanta; dalle emigrazioni di massa a cavallo del XIX e XX secolo, alle immigrazioni a cavallo del XX e XXI secolo. La seconda lezione è che il paese di oggi è diverso dal passato per alcune condizioni cruciali che hanno depotenziato sia la capacità di resistere, sia le energie per dar spinta a nuove accelerazioni in grado di recuperare e andare oltre. La demografia, con i profondi squilibri tra vecchie e nuove generazioni, ci sta facendo entrare in un terreno inesplorato. È come se la base del pendolo venisse progressivamente inclinata bloccandoci su una posizione che da scomoda rischia di diventare insostenibile.
Nella descrizione che proponete delle stagioni della nostra storia demografica, il punto critico all’interno di un percorso che ha una sua coerenza sembrano essere gli anni Novanta. Che cosa non ha funzionato?
Verso la fine degli anni Ottanta l’Italia si trovava ad aver portato la longevità su livelli tra i più alti al mondo, grazie anche a riforme che hanno esteso in modo universale l’accesso alla salute pubblica, ma si è trovata anche con un numero medio di figli per donna tra i più bassi al mondo. Prima dell’Italia i paesi scandinavi e altri dell’Europa occidentale erano scesi sensibilmente sotto i due figli per donna – soglia che corrisponde all’equilibrio tra generazioni nei paesi a bassa mortalità – ma grazie a un rafforzamento delle politiche familiari, di sostegno all’autonomia dei giovani e di conciliazione tra lavoro e famiglia, avevano evitato di scendere troppo sotto e in parte erano anche riusciti a invertire tendenza. La politica in Italia non è andata invece in tale direzione, ma, lasciando ai margini le nuove generazioni e le donne, ha frenato le possibilità di realizzazione piena delle loro scelte di vita e limitato, in particolare, la loro partecipazione attiva nella dimensione produttiva e riproduttiva. Il paese si è progressivamente arroccato nella difesa del benessere raggiunto, facendo leva sul debito pubblico e riducendo le nascite, anziché aprirsi in modo generativo a nuovo benessere in tempi nuovi con strumenti nuovi.
Un approccio miope, insomma, che ha scaricato i costi di scelte conservative sulle future generazioni. Quale è stata la conseguenza?
L’entrata nell’autunno degli anni Novanta. Con due sorpassi record speculari: quello del debito pubblico sul prodotto interno lordo e quello degli over65 sugli under15. Poteva essere questa la stagione della maturità, della consapevolezza della necessità di ristrutturare il modello di welfare del paese. Purtroppo, i segnali sono invece stati timidi. Le politiche familiari e di conciliazione hanno fatto passi in avanti ma rimanendo ben sotto gli standard europei. Le riforme sulla previdenza e sul mercato del lavoro hanno privilegiato le generazioni con posizioni già consolidate aumentando la precarietà dei nuovi entranti e consolidando per i giovani il ruolo della famiglia di origine come ammortizzatore sociale. L’impatto della Grande recessione nel 2008 ha poi congelato anche i timidi progressi, facendo di nuovo precipitare la fecondità verso il basso.
A cosa possono essere ricondotti questi errori? C’è un aspetto culturale che grava su un tipo di scelte?
Alla combinazione tra un limite culturale e un limite di interpretazione del percorso di sviluppo del Paese. Il limite culturale riguarda il pensare ai figli come bene privato a carico dei genitori anziché bene collettivo su cui tutta la società ha convenienza a investire in modo solido. Questo ha fatto sentire le famiglie italiane sole in un contesto in profondo mutamento: la carenza di politiche familiari e per le nuove generazioni porta ad una riduzione del numero di figli e al prolungamento della loro dipendenza dai genitori. Questa carenza è stata favorita anche dall’altro limite, quello di pensare che il modello sociale di successo degli anni Cinquanta e Sessanta non andasse rinnovato ma semplicemente mantenuto, concentrando l’attenzione politica solo su come non far lievitare troppo la spesa sociale.
In passato a una crisi della mortalità è sempre seguita una ripresa di nascite e migrazioni. L’esperienza del Covid non è paragonabile alle epidemie di peste né alle guerre, ma questo evento può rappresentare un punto di svolta?
L’antico regime demografico era regolato da meccanismi che nel nuovo regime non funzionano più o agiscono in modo diverso. In passati non c’era una “decisione” di avere figli: semplicemente questi arrivavano in modo naturale dalle coppie che si formavano. Dopo una grande epidemia o una guerra, chi perdeva il coniuge si risposava e i giovani che avevano rinviato le loro scelte si sposavano. Questa nuova ondata di vitalità interagiva con la ripresa dell’economia. Dopo la Seconda guerra mondiale tali meccanismi erano già in parte cambiati, tanto che il miracolo economico e il baby boom s’innescano vari anni dopo la fine del conflitto, arrivando all’apice ad inizio anni Sessanta. La pandemia di Covid non è paragonabile alle crisi di mortalità del passato perché la formazione di unioni non porta di per sé ad un aumento della natalità se non si supera anche l’incertezza nei confronti del futuro che blocca la scelta più impegnativa e vincolante, quella di avere un figlio. Oggi serve un contesto sociale fertile, non basta avere persone in età fertile. Le politiche contano molto, sia come messaggio culturale di attribuzione di attenzione e valore sociale dato alla scelta di avere un figlio, sia come sostegno oggettivo e riduzione del senso di incertezza. La pandemia può diventare un punto di svolta solo se vogliamo che lo diventi, non avverrà automaticamente in modo fisiologico come nelle epoche passate. Ma paradossalmente, proprio l’aver lasciato ai margini giovani e donne, ci consente ora di aver potenzialmente più spinta per alimentare una nuova fase di sviluppo. A patto però di mettere pienamente in campo le loro energie generative con strumenti adeguati.
Saremo paese più piccolo, più vecchio, con meno persone che lavorano, meno giovani… La demografia è sempre destino o abbiamo ancora dei margini? C’è un obiettivo cui possiamo ancora ambire?
Le nascite italiane non si trovano solo su livelli molto bassi, ma anche posizionate su una scala mobile che le trascina ulteriormente in giù a causa della struttura per età della nostra popolazione. Più il tempo passa, più diventa difficile invertire la curva negativa. Nemmeno consistenti flussi migratori sarebbero ormai in grado di controbilanciare tale tendenza. Dunque, anche la politica deve cambiare approccio. Non possiamo più accontentarci ogni anno di mettere risorse nella legge Bilancio su alcune misure e vedere volta per volta l’effetto che fa, bisogna porsi come obiettivo quota 500mila nascite e mettere tutto ciò che serve in modo mirato e integrato per raggiungere entro dieci anni tale risultato. Mancare tale obiettivo significa condannare le nascite a una caduta continua che porta a scenari demografici insostenibili. Se nel decennio scorso siamo stati i peggiori in Europa, da qui in poi dovremmo diventare l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni.
La riforma dell’Assegno unico e universale (Auu) ha aperto la stagione della consapevolezza circa l’emergenza demografica. Che pregi ha l’Assegno? Quali difetti? In cosa andrebbe riformato?
L’Auu rappresenta una svolta sul fronte delle politiche familiari in Italia. Con la sua introduzione si è realizzata un’importante semplificazione delle misure preesistenti che rendevano il sistema delle risorse messe a disposizione dallo Stato per le famiglie complicato e frammentato, ma anche iniquo e inefficiente. Uno dei principali punti deboli dell’Auu è invece la quota universale relativamente bassa: in Germania l’importo della parte universale è quattro volte superiore alla base dell’Auu. Se paragonata poi alla spesa media mensile in Italia per figli a carico, la base universale è da 10 a 15 volte inferiore.
Proprio la Germania, grazie anche a nuove e recenti politiche familiari, è riuscita a frenare la denatalità e a invertire la tendenza. Qual è stata la formula vincente?
L’esperienza dei vari paesi europei mostra che l’efficacia dei trasferimenti, quanto a impatto sulla natalità, è legata alla loro consistenza. L’assegno deve essere percepito come sostegno non simbolico, ma rilevante, dalla fascia del ceto medio. Da un lato, infatti, è la fascia demograficamente più rilevante, quindi le scelte delle famiglie del ceto medio incidono di più sul totale delle nascite. D’alto lato, il ceto medio è escluso dalle misure di contrasto alla povertà, quindi il sostegno ai costi di un figlio arriva da assegni che hanno carattere universale e di importo che fornisca un aiuto effettivo rispetto alle spese sostenute. Inoltre, per essere uno strumento efficace in termini di politiche familiari, il rafforzamento dell’«universalità» della misura andrebbe affiancato, come previsto nel Family Act, da un potenziamento dei servizi alle famiglie, che oggi sono ancora insufficienti e iniquamente accessibili. Pensiamo ai nidi: vanno ridotti i costi, che sono tra i più elevati in Europa, e va migliorata la qualità rispetto alla funzione socio-educativa, oltre ad essere resa più omogenea la loro diffusione sul territorio.
I più giovani hanno ancora voglia di figli e famiglia?
Una comunità dovrebbe impegnarsi prima di tutto a mettere le nuove generazioni nella condizione di generare valore con le loro scelte, facendole diventare esperienze positive. Servono strumenti e servizi che aiutino a sbloccare una scelta che spesso resta sospesa per condizioni oggettive di difficoltà del presente e l’incertezza nei confronti del futuro. La parte più ampia della fecondità italiana è dovuta al crollo delle nascite da genitori under 30: la spinta maggiore per la ripresa può venire soprattutto dalle nuove coppie. Favorire l’autonomia con politiche abitative adeguate, e l’arrivo del primo figlio con un sostegno economico consistente, in combinazione con strumenti di conciliazione sia per madri e padri, è il punto di partenza imprescindibile per evitare che il declino, non solo demografico, del paese diventi un destino che si autoadempie.