Il caso. Rapita dalla madre e portata all'estero. Per i giudici va bene così
Può essere tollerabile che una ragazza amata, educata e cresciuta da un padre per 13 anni venga “rapita” dalla madre e trattenuta all’estero, troncando ogni rapporto con il genitore? Forse, si potrebbe pensare, la ragazza, che chiameremo Yvette (nome di fantasia), non si trovava bene ad Aosta dove la famiglia viveva. Ma non è così. Yvette era pienamente inserita nella sua comunità, andava a scuola con ottimi risultati, studiava musica, frequentava le attività parrocchiali. E, soprattutto, aveva con il padre – che chiameremo signor G. - un rapporto sereno. Del resto, aveva sempre vissuto con lui. Pochi mesi dopo la nascita della piccola, la relazione tra l’uomo e la compagna francese era andata in frantumi. La donna era tornata nel suo Paese, mentre la bambina era rimasta in Italia e, dopo una serie di provvedimenti giudiziari, era stata affidata in via esclusiva al padre con divieto di espatrio in Francia.
Quando la piccola compie 7 anni l’affido diventa condiviso, dopo una serie di procedimenti e provvedimenti sollecitati dalla madre, ma il Tribunale per i minorenni di Torino, competente per territorio, decide comunque che Yvette rimanga collocata presso il padre e quindi continui a risiedere in Italia. I giudici però ritengono giusto che la ragazza possa periodicamente fare visita alla madre in Francia.
Un equilibrio probabilmente instabile, visto il rapporto difficile tra i due genitori, ma che regge bene o male fino al 2019. Nel frattempo, come detto, il padre continua a mostrarsi genitore attento, partecipe, sensibile, provvede da solo, dal punto di vista economico e da quello educativo, alla crescita di Yvette. Ma nel novembre di cinque anni fa, ecco l’imponderabile. La ragazza è in Francia con la madre per un week end. Passano i giorni, non torna. Il signor G., preoccupatissimo, non riesce a contattarla. Alla fine, si viene a sapere per via giudiziaria che Yvette è ricoverata in ospedale per un attacco di ansia e che non vorrebbe tornare in Italia.
Non c’è neppure modo di incontrarla perché non si sa dove si trovi e tra due genitori non c’è comunicazione alcuna. Ma la motivazione dello stato ansioso appare da subito poco credibile. Agli atti ci sono documenti e testimonianze scritti di amici di famiglia, insegnanti, parroco e medici che documentano come la ragazza non soffrisse di alcun malessere.
Dopo giorni e settimane, visto che la madre continua a trincerarsi dietro questi presunti malesseri psicologici della ragazza, al padre non rimane altro che rivolgersi al Tribunale. Chiede che la figlia, come previsto dalla sentenza di affido condiviso emessa dal giudice minorile sei anni prima, venga fatta rientrare in Italia. “Ma – spiega l’avvocato Irene Margherita Gonnelli legale rappresentante il padre assieme alla collega Silvia Pellegrini - dopo tre anni dall’inizio della causa, siamo ormai al 2022, il Tribunale di Aosta dichiara la propria incompetenza a decidere sulla minore, a favore del giudice francese, con decisione confermata dalla Corte d'Appello di Torino, nonostante la residenza della ragazza, fin dalla nascita, fosse sempre stata ad Aosta”.
Non rimane che rivolgersi allo stesso giudice francese, ma anche in questo caso il tentativo non approda a nulla. Per colmo di paradosso il Tribunale di Grenoble riconosce che Yvette è stata trattenuta illecitamente in Francia e che quindi la madre ha commesso un illecito civile, oltre che un reato per cui è stata peraltro riconosciuta responsabile e quindi condannata in secondo grado dalla Corte d’Appello di Torino, ma nega la concessione del rimpatrio. Motivo? Generici rischi collegati al ritorno in Italia. Insomma, i giudici francesi, pur riconoscendo che la mamma francese di Yvette ha infranto la legge, accolgono le sue tesi.
Non succede la stessa cosa per i giudici italiani nei confronti del signor G. che pure non intende rassegnarsi a quella che appare la più atroce delle condanne, quella di non poter più vedere la figlia.
“Come previsto dal regolamento comunitario allora in vigore, il n. 2201/2003, oggi sostituito dal regolamento n. 1111/2019 – riprende l’avvocato Gonnelli - il sig. G. ha chiesto al Tribunale per i minorenni di Torino di superare la pronuncia francese e disporre il rientro della figlia; tuttavia, nonostante il chiaro disposto della normativa comunitaria, né Il Tribunale per i minorenni di Torino né la Corte d'Appello di Torino, a cui ci siamo rivolti in secondo grado, hanno applicato la normativa”.
A questo punto l’ultima speranza è rappresentata dalla Cassazione, dove pure il caso suscita qualche motivo di interesse, visto che per deciderlo si riuniscono le Sezioni Unite che, come noto, rendono pronunce su aspetti controversi e fanno giurisprudenza. Ma l’ordinanza emanata inizio settembre di quest’anno gela le residue speranze del padre: “Le Sezioni Unite – continua l’avvocato - hanno deciso di non pronunciarsi su eventuali violazioni compiute in primo e in secondo grado ai danni del sig. G. e della figlia, per il motivo che, data l'età della ragazza, il padre non avrebbe più interesse a far constatare violazioni, non potendo più intervenire, in concreto, in alcun modo sulle sorti della ragazza”. Insomma, dicono in sostanza i supremi giudici, perché mai ti affanni tanto per una figlia che ormai può decidere in piena autonomia? Come se l’affetto di un genitore venisse meno quando un figlio diventa grande. Incredibile ma vero.
Ma se la parabola giudiziaria italiana per ora si conclude qui – si sta valutando il ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo - quella umana, con le troppe ferite giudiziarie e morali inferte al signor G., non potrà mai essere risolta. Di fronte a un sistema giudiziario come quello italiano che dichiara la propria incapacità di rimettere le cose al posto giusto, c’è un uomo che non la possibilità di avere alcuna notizia della figlia, gli viene impedito di sapere come va la sua salute, come occupi il suo tempo, come vada a scuola. Ha cresciuto una figlia con amore fino a 13 anni e ora, con la complicità di una giustizia ingiusta, è stato eliminato dalla vita della ragazza.
Marinella Colombo, la mamma milanese scomparsa il 18 settembre scorso che aveva dedicato la vita a difendere i genitori resi “orfani” dalle inefficienze della giustizia italiana, aveva raccontato in un’intervista pubblicata su queste pagine nel febbraio dello scorso anno, che troppo spesso l’Italia sta a guardare e che esistono grandi differenze tra un Paese e l’altro per quanto riguarda la tutela dei minori.
Un’indifferenza così estesa, quella del nostro Paese, verso le sorti dei piccoli italiani portati illegalmente all’estero, da ignorare addirittura il numero reali dei casi. Non ci sono statistiche ufficiali, si riportano solo le vicende di cui la Farnesina ha notizia, circa 300, ma i minori coinvolti in queste situazioni potrebbero essere dieci volte più numerosi.
“Continuare a tenere viva l’attenzione su questi casi – conclude Irene Margherita Gonnelli che ha collaborato a lungo con Marinella Colombo e con il suo sportello per l’ascolto dei genitori a cui sono stati sottratti i figli – significa mantenere accesa la speranza per tanti padri e tante madri che soffrono per la perdita dell’affetto più grande e che, per quanto riguarda l’Italia, si sentono impotenti perché lasciati soli dal proprio Paese. Noi però andremo avanti”.