Musica trap 2. Lancini: «Testi odiosi ma demonizzare non serve. Educhiamo»
Trap uguale trappola? Uguale trapping? Uguale rap più duro e spietato? Tutto abbastanza vero. Il nome deriva dalle trap house, che nello slang di Atlanta indicava le case dove si spaccia. Da qui il termine trapping, sinonimo di spaccio, soprattutto nei sobborghi della città americana all’inizio degli anni Novanta. Dopo una decina d’anni il termine comincia a indicare un sottogenere musicale con canzoni infarcite di riferimenti espliciti alla droga, al sesso, al desiderio di diventare ricchi in tutti modi possibili, leciti e soprattutto illeciti. Se è sempre problematico porre confini etici alle espressioni artistiche, possiamo però chiederci che conseguenze possono avere quelle canzoni sotto il profilo educativo. E lo chiediamo a un esperto come Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, docente all’Università di Milano Bicocca, autore di decine di saggi sul disagio degli adolescenti, che spesso si è occupato anche di musica trap.
Ma i testi di queste canzoni che grondano sessismo e violenza possono avere un’influenza negativa sul modo di intendere la vita e le relazioni affettive dei nostri ragazzi?
Potrei rispondere che non abbiamo nessuna prova scientifica della correlazione causa-effetto. Ma non lo dico perché non vorrei essere frainteso. E quindi confermo che alcuni di quei testi sono obiettivamente insopportabili, ma anche questo sarebbe un giudizio parziale, che non tiene conto di tutta una serie di considerazioni importanti per capire davvero questo fenomeno. Se vogliamo fare un discorso non banale dobbiamo partire dall’inizio.
Quale inizio?
I ragazzi americani che inaugura-no il trap sono davvero figli di quelle periferie marginali dove si vive di espedienti e di criminalità. La loro musica è davvero segnata dalla disperazione, dalla rabbia sociale. Inevitabile che i testi delle canzoni facciano riferimenti a un mondo dove il crimine, lo spaccio e altri reati sono il pane quotidiano. Negli anni successivi la musica diventa più commerciale e, in questa versione soft, arriva in Europa.
Lei dice “soft” ma se leggiamo alcuni di questi testi, la domanda rimane sempre la stessa. Nell’inchiesta del social media “Libreriamo” che ha analizzato quasi 500 testi di canzoni trap, risulta che 6 brani su 10 contengono espressioni violente contro le donne, mentre droga, rabbia, espressioni in grado di alimentare odio e violenza sono i contenuti “normali” di quasi tutte le canzoni. Diamo questa roba da ascoltare ai nostri figli?
Diciamo subito che ci sono sempre stati generi musicali estremi, che nelle varie epoche si sono incaricati di rappresentare la protesta giovanile. Ma ci ricordiamo la demonizzazione del rock di qualche decennio fa? C’era addirittura chi ascoltava le canzoni al contrario per scoprire frasi sataniche. Cosa è rimasto di tutto quel polverone? Oggi è facile prendersela con la musica trap, ma se vogliamo davvero fare un discorso educativo non dobbiamo limitarci ai testi di queste canzoni.
E cosa dovremmo fare quindi?
Innanzi tutto, chiederci perché ci sono centinaia di migliaia di ragazzi che ascoltano questi testi. Anche ragazzi considerati “normali” – dato e non concesso che questa definizione abbia un senso – che hanno buoni risultati a scuola oppure che hanno un lavoro stabile. Se si va a chiedere a questi appassionati di trap quanti meterebbero in pratica quanto ascoltato in quelle canzoni – ed è un esperimento che è stato davvero fatto – avremmo solo risposte negative. Ascoltano il trap, lo apprezzano, ma nessuno o quasi sarebbe disposto a trasformarlo nella propria cultura di riferimento.
E quindi, via libera alla musica trap?
Aspetti, non ho detto questo. Temo però che in tutta questa demonizzazione del trap ci siano ragioni più profonde. Facciamo un esempio. Giusto stigmatizzare il sessismo, talvolta davvero odioso, che impregna alcuni testi. Ma l’immagine della donna che si respira normalmente in tanti programmi televisivi, anche nella tv generalista, oppure nella pubblicità, non rimanda sempre e comunque a quella che una volta era definita “donna oggetto”? E se condanniamo l’ostentazione della ricchezza di alcuni brani trap perché non usiamo la stessa misura di fronte agli esempi di successo, talvolta sfrontato e pacchiano che arrivano dalla realtà quotidiana da parte di alcuni esponenti dell’imprenditoria, dello sport, del cinema? I ragazzi avvertono questa incoerenza e reagiscono a loro modo. La musica trap estremizza e semplifica una cultura che è poi il volto peggiore di quella – dobbiamo ammetterlo - che si respira nella vita ordinaria.
Quindi, se ho capito bene, questa demonizzazione in qualche modo serve anche a lavarci la coscienza, a mettere sottotraccia la nostra incapacità di essere adulti credibili per quello che facciamo, più che per quello che diciamo?
Temo che in parte sia così. Qualche decennio fa il capro espiatorio dei nostri insuccessi educativi erano i videogiochi. Poi sono arrivati i social. Quindi tutti a scagliarsi contro i mesi del Covid. Adesso la musica trap offre un bersaglio talmente facile che sarebbe un peccato – mi perdoni l’ironia amara - non cogliere l’occasione. Banalizzo, naturalmente, ma non troppo. Non vediamo l’ora di vietare qualcosa per tacitare le nostre insicurezze. Ma con l’educazione a colpi di divieti non si fa da nessuna parte.
E quindi cosa fare?
Vediamo per esempio se in questa musica c’è qualcosa da valorizzare, se accanto ai tanti testi che non possiamo considerare esemplari, c’è qualcosa che ci offre occasione per riflettere. Ci sono brani, per esempio, che parlano di suicidio e di depressione. Sono temi che interrogano con forza i ragazzi e che sarebbe il caso di riprendere e approfondire. Insomma, invece di gridare allo scandalo e di strapparci le vesti, proviamo a capire, a farci delle domande, a metterci in discussione, a capire le ragioni dell’altro. Anche quelle dei nostri figli che ascoltano il trap e non per questo sono dei mostri.