Famiglia

Prospettive. Perché vivere nei "deserti matrimoniali" è più difficile e complesso

Luciano Moia mercoledì 14 agosto 2024

Una scelta d’amore, un patto per la vita, un ponte verso la felicità, un impegno responsabile per costruire un futuro migliore per sé stessi, per i figli, per la società. Ma, soprattutto, un sacramento, un impegno di fronte al Signore, una speciale consacrazione di una vocazione all’amore che nasce dalla terra e guarda al Cielo. Il matrimonio è tutto questo e molto altro ancora. Si intreccia anche con l’antropologia, con le tradizioni locali, con le abitudini, con la moda, con gli esempi positivi e negativi che arrivano dalla cerchia familiare, dalle amicizie, dal contesto sociale, dalla città o dal quartiere in cui si abita. Ma come, una decisione così importante come quella di costruire una nuova famiglia fondata su un rapporto d’amore che deve o dovrebbe durare per sempre, può essere determinata da un aspetto apparentemente marginale come gli esempi che arrivano dagli amici e dai vicini di casa? Può sembrare strano, ma è proprio così.

Erano note le ricerche, negli Stati Uniti ma anche in Europa, che mettevano in luce il peso della storia familiare nella scelta di sposarsi. Statistiche in cui sono state evidenziate incertezze, ritrosie e titubanze – comprensibili – da parte dei figli di separati e divorziati al momento di porre un sigillo anche formale – ma che non è solo formalità - all’altare o in Comune per quanto riguarda le proprie storie d’amore.

Adesso dall’America arriva una ricerca che racconta quanto siano positivamente contagiosi i buoni esempi di stabilità matrimoniale nell’ambito della zona in cui si abita e, al contrario, quanto danno producano in termini di emulazione negativa le disgregazioni familiari riferite alle proprie frequentazioni sociali o amicali. Esistono negli Stati Uniti interi quartieri dove si registrano tassi di matrimonio persistentemente bassi (accade nelle comunità rurali della classe operaia bianca degli Appalachi, nelle comunità nere adiacenti al delta del Mississippi e nelle riserve dei nativi americani in Dakota, ma anche in quartieri a estrazione sociale differente di Los Angeles o Santa Monica).

Al contrario, esistono altre zone dove le famiglie sposate stabili sono invece la norma. L'incidenza di questo fenomeno è problematica, spiegano due analisti dalle pagine dell'Institute for Families Studies, - ricerca rilanciata in Italia dalla newsletter del Cisf (Centro internazionale studi familiari) - perché il modello familiare (e il suo capitale di benessere o di disagio) si tramanda attraverso le generazioni: la percentuale di ragazzi che affermano che avere un buon matrimonio e una vita familiare soddisfacente è “importante/estremamente importante” è passata da un massimo del 75% negli anni ’90 al 57% nel 2021. E anche questo dato negativo è frutto del “cattivo esempio” in arrivo dalle zone definite nello studio “deserti matrimoniali”.

La ricerca si interroga sulle ragioni che determinano il successo o il fallimento di un matrimonio prendendo spunto dalle ricerche dello psicologo John Gottman che ha creato un modello noto come "Love Lab" presso l'Università di Washington a Seattle. “Le coppie – si legge - sono state invitate a trascorrere un fine settimana in un appartamento lussuoso con vista panoramica, mentre Gottman e il suo team monitoravano il loro linguaggio del corpo, le conversazioni, la pressione sanguigna e persino i livelli di cortisolo per capire cosa determina un buon matrimonio rispetto a un matrimonio fallito”.

Studiando centinaia di coppie, Gottman ha scoperto che alcuni modelli comportamentali - come avere almeno cinque interazioni positive per ogni interazione negativa nel mezzo di un conflitto - erano collegati a matrimoni di successo, mentre modelli di difensiva o di critica regolari portavano alla sconfitta coniugale.

Un altro studioso, Brad Wilcox, nel suo libro Get Married – sottolinea ancora la ricerca – ha messo in luce come a Laurelhurst, lungo il lago Washington a Seattle, esista una comunità quasi “perfetta” dal punto di vista della solidità matrimoniale, con quasi il 90% di famiglie con due genitori. Al contrario, perché un quartiere della stessa città, a pochi chilometri a sud del “Love Lab”, South Park, è popolato da una maggioranza di genitori single?

La ricerca spiega come negli ultimi decenni, in America siano in aumento i cosiddetti "deserti matrimoniali", cioè interi quartieri in cui i tassi di matrimonio sono persistentemente bassi. Mentre esistono altri quartieri – purtroppo sempre meno numerosi - dove le famiglie sposate stabili sono la norma.

Gli analisti hanno individuato alcuni fattori che favoriscono la coesione. Le nuove relazioni coniugali – fanno notare – vengono modellate positivamente se “si ha avuto il privilegio di crescere in una famiglia stabile, dove c’era una coppia felicemente sposata”. In questo modo i figli “hanno un posto in prima fila per almeno 18 anni” – cioè nella propria famiglia coesa - in modo da poter comprendere bene come funziona il matrimonio. Una relazione coniugale soddisfacente e che va avanti negli anni, pur in mezzo alle difficoltà ordinarie e straordinarie, è per i figli il più efficace incentivo alle nozze. Oltre che un quotidiano banco di prova per sperimentare in diretta gli “attrezzi” necessari a mantenere in efficienza una buona relazione.

Al contrario – si legge ancora nella ricerca – “se si cresce con genitori conviventi o divorziati, o con genitori che erano regolarmente in guerra tra loro, la percezione è diversa” e per i figli immaginare come potrebbe essere un buon matrimonio – e soprattutto quali vantaggi potrebbero derivarne - richiede uno sforzo maggiore. Esperienza comune - si fa notare - per molti giovani cresciuti durante la “rivoluzione dei divorzi” degli anni Settanta e Ottanta.

Ma – e si tratta dell’aspetto più originale della ricerca - se per chi è cresciuto in una famiglia disgregata, con un solo genitore, il matrimonio è ancora più difficile da immaginare, le difficoltà si moltiplicano per il già citato effetto contagio, quando si cresce in un contesto sociale in cui le famiglie con la presenza di un solo genitore sono la norma e ci si trova di fronte a interi quartieri in cui il matrimonio inteso come relazione feconda e serena tra un uomo e una donna “diventa una finzione”. Cioè, una realtà conosciuta solo nominalmente ma praticamente introvabile in quella determinata realtà.

Non si tratta di gettare la croce sulle famiglie in difficoltà, né tantomeno su separati e divorziati. La storia di ogni coppia vive di fatiche e fragilità. Oggi, in tutto il mondo occidentale, separazioni e divorzi sono diventati l’esito quasi ordinario per le situazioni di crisi. Giusto, sbagliato? Non è questo il punto. Sappiamo che esiste una cultura sociale e giuridica dominante che spinge in modo compatto verso quel tipo di soluzione. Difficile prendere le distanze senza un sostegno culturale e spirituale specifico, capace di proporre modelli alternativi.

Negli Stati Uniti, nel 1968, solo il 13% dei bambini statunitensi viveva con un genitore non sposato, convivente o single. Nel 2023, quasi un terzo dei minori vive con genitori single o conviventi.

Non deve stupire quindi che, mentre negli anni Novanta il 75 per cento dei ragazzi affermava che avere un buon matrimonio e una buona vita familiare è "importante/estremamente importante", nel 2021 la percentuale sia passata al 57%. Per le ragazze si è passati dal 75% al 69%. Tra altri dieci anni a che percentuale arriveremo?

Insomma, quanto più si allarga il “deserto matrimoniale”, tanto più la vita familiare guidata da una coppia di genitori diventa desueta, quasi estranea alla maggior parte dei ragazzi e l’ipotesi delle nozze si trasforma in una prospettiva lontana di cui si rischia di perdere la memoria.

E in Italia abbiamo “deserti matrimoniali”? In attesa di ricerche come quelle condotte negli Stati Uniti, in grado di individuare quartieri e zone ad alta o bassa “intensità matrimoniale”, abbiamo i dati riferiti alle diverse città. Abbiamo già riferito (vedi qui) il caso di Milano e della diocesi ambrosiana, dove i matrimoni sono crollati di due terzi in poco meno di 25 anni e dove, se si applicassero i criteri utilizzati dai ricercatori americani, sarebbe facile cogliere un progressivo distacco dalla cultura della coniugalità generativa, intesa come sbocco esistenziale ordinario e desiderato agli occhi della maggior parte dei giovani. Una ricerca del sito Matrimonio.com dello scorso anno aveva indicato Napoli (7,4% del totale dei matrimoni celebrati in Italia) come la città in cui le tradizioni nuziali rimangono ancora vive. Milano sarebbe al 4,3%, Palermo al 3,2 e Torino al 3,1.

Ma si tratta di statistiche difficilmente confrontabili e su cui pesa il vortice di una trasformazione sociale, culturale e anche etica di fronte a cui siamo tutti disarmati. Ma se non vogliamo che anche larghe zone delle nostre città e dei nostri borghi, soprattutto al Centro-Nord, si trasformino come negli Usa in “deserti matrimoniali” occorre raccogliere la sfida e proporre soluzioni possibili. Se perdiamo la cultura del matrimonio – al di là degli aspetti spirituali che per noi rimangono irrinunciabili – perdiamo un caposaldo della nostra civiltà e l’intera società finirà per risultare più povera, più frammentaria, più casuale, un luogo dove vivere sarà meno gradevole e più complicato.