Famiglia

Sessualità. Le madri e la disforia di genere. «Queste nostre figlie riscoperte»

Luisa Fressoia domenica 10 dicembre 2023

Un gruppo di donne che tra loro non si conoscono cominciano a incontrarsi, accomunate dalla forte esigenza di parlare del proprio “essere genitori”, nella specifica e difficile situazione in cui oggi sono venute a trovarsi: il figlio o figlia hanno dichiarato la propria omosessualità, oppure hanno espresso il desiderio di transitare nel sesso opposto. Su invito dell´associazione milanese Agapo (Associazione genitori e amici di persone omosessuali), a cui si erano rivolte, dieci madri hanno accolto la proposta di un percorso di accompagnamento pedagogico finalizzato ad aiutarle ad affrontare le proprie difficoltà a gestire la relazione con il figlio o con la figlia e i propri dubbi sulle problematiche dell’identità sessuale e di genere.

Il percorso, costituito da più cicli di incontri tenutisi a partire dal maggio 2022 negli spazi di una parrocchia della citta´, si basa sulla metodologia autobiografica sviluppata in Italia a partire dagli studi e dalle intuizioni della Libera Università dell´Autobiografia di Anghiari alla fine degli anni 90. Dal primo incontro emergono subito due aspetti: il desiderio profondo da parte di tutte le donne di non perdere la relazione con il figlio o la figlia e il bisogno urgente di poter esprimere il proprio dolore e disorientamento. Basta accettare, non esiste il problema. Questa è da anni, in sintesi, la risposta più frequente che si sente nel discorso pubblico. In verità il dolore di queste madri mostra radici più profonde dell’omofobia interiorizzata proveniente dalla nostra società, ovvero la non accettazione o il rifiuto dell’omo o transessualità.

Nel corso degli incontri le madri hanno avuto l’opportunità di esprimere il proprio dolore al fine di elaborarlo insieme alla possibilità di confrontarsi sulla complessità del tema. Il momento in cui un figlio rivela ai genitori la propria omosessualità o il proprio desiderio di cambiare sesso, non sentendosi a proprio agio nel corpo in cui è nato (disforia di genere), è un momento molto delicato sia per il figlio sia per i genitori stessi.

Come pedagogista lavoro soprattutto con i genitori, proponendo loro un percorso di presa di consapevo-lezza, che riattraversa la storia relazionale con il figlio o la figlia, al fine di migliorarne e arricchirne la relazione. L’obiettivo è che i figli imparino a prendersi cura di sé (che diventa anche cura degli altri). In tal senso il percorso è finalizzato non tanto a focalizzarsi sulla medicalizzazione (ad esempio le somministrazioni ormonali e gli interventi chirurgici irreversibili), ma ad attivare un profondo lavoro su di sé, sulle ansie e paure che il processo identitario comporta all’interno del percorso di crescita, che è sempre comunque faticoso, se pur affascinante.

Negli incontri gli interventi delle madri di giovani con disforia di genere hanno preso sempre più spazio (rispetto a quelle di figli omosessuali), casi che al momento diventano sempre più numerosi, specialmente nel caso di ragazze che desiderano diventare ragazzi. Le situazioni poste sul tavolo mostrano un alto grado di drammaticità, creando immediato coinvolgimento ed empatia da parte delle presenti. Particolarmente difficile da sopportare è per esempio osservare nelle proprie figlie la trasformazione dei tratti somatici, il cambiamento della voce, il comparire della barba, fino alla scelta della mastectomia dei seni sani. Dai racconti delle madri è possibile riscontrare nelle figlie, ancora giovanissime (20 anni) una assai forte determinazione nell’operare scelte dalle conseguenze fortemente impattanti e spesso irreversibili sul proprio corpo e sulla propria psiche; così come si riscontra una certa fretta nell’iniziare il processo di transizione.

Pur essendo ancora soggetti in formazione, queste giovani hanno ricevuto il sostegno pressoché immediato a scuola sia da parte dei docenti, che da parte dei compagni: ad esempio per quanto riguarda l’utilizzo di nomi e pronomi maschili e in più casi sono state riconosciute leader o avanguardie di una cultura nuova che, loro sostengono, deve affermarsi. Lo stesso sostegno alla transizione di genere viene ricevuta dai servizi sociosanitari con equipe di specialisti in base a protocolli consolidati. Presso l’ospedale Niguarda ad esempio la prassi per poter iniziare la transizione consiste in alcuni incontri intervallati tra psicologo, endocrinologo e psichiatra, un programma che consente al giovane di ricevere gratuitamente come primo step una cura ormonale insieme al contatto con l’associazione ALA (Associazione finanziata dalla Regione che si occupa di tutela della salute, inclusione sociale, lotta alle discriminazioni e cooperazione sia sul territorio nazionale che internazionale), guidata da un educatore e da un avvocato rispettivamente “M to F” e “F to M” (entrambe cioè già transitate, rispettivamente da maschio a femmina e da femmina a maschio). Dall’esperienza diretta di genitori che hanno partecipato agli incontri dell’associazione si registra come sin dall’inizio il messaggio che viene trasmesso sia chiaro: terapia ormonale e intervento chirurgico risolvono il problema di un genere percepito come inaccettabile.

A tal proposito il presidente della Società di psicoanalisi Sarantis Thanopulos in un’intervista rilasciata al Foglio lo scorso 16 ottobre parla di “medicalizzazione dello spazio psichico” e osserva: «Oggi cerchiamo una soluzione medica per ogni problema, distorcendo i processi evolutivi e di elaborazione dell’esperienza. Ma i farmaci non risolvono problemi esistenziali» e invita gli analisti a «non restare in silenzio davanti a situazioni he reputano dannose per i cittadini» Lo stesso Thanopu-los, nella rubrica settimanale di psicologia da lui curata sul Manifesto osserva anche: «Quando si procede alla manipolazione chirurgica e ormonale del proprio corpo, il che penalizza severamente il piacere sessuale, si slitta nell’assoggettamento dell’intimità psichica all’esteriorità dell’immagine che, lungi da essere una caratteristica in sé della transessualità, è un fatto preoccupante del nostro tempo». Sono aspetti indubbiamente complessi, che affrontati insieme nel gruppo perdono per lo più la dimensione di condizione insopportabile o dagli effetti incontenibili.

Condividendo la vita, anche nella sua attuale sofferenza, ogni esperienza riacquista il proprio valore e la forza per essere affrontata e accolta. Il metodo narrativo-autobiografico usato ha permesso di porre al centro ogni volta il racconto dei propri vissuti e la ricerca dei significati ad essi connessi. È stata posta attenzione anche sulla relazione tra i membri del gruppo formatasi, che è andata progressivamente valorizzandosi e che ha permesso alle donne e madri di superare l’iniziale stato di pesante solitudine. Un percorso che, in ultima analisi, ha consentito di prendersi cura di sé nel prendersi cura della vita della figlia o del figlio, riuscendo a conoscerli e comprenderli meglio, comprendendo meglio anche se stesse. Le madri uscite dal lavoro svolto su di sé e con le altre godono oggi di una maggiore serenità e autonomia di pensiero e di azione. É sempre interessante scoprire in ognuno di noi come certi “nodi”, che ci hanno tenuto magari per anni sotto scacco, comincino a sciogliersi: occorre fermarsi per riconoscerli per poi metterli a fuoco.

Nodi che possono interessare e liberare l’espressione della propria femminilità o mascolinità, il mondo degli affetti, la vita sessuale, la propria capacità di autonomia e dedizione. Ne va del nostro desiderio di vita e di umanità pienamente vissuta. Un programma che dura tutta la vita, quello della ricerca di una vita da far fiorire in tutte le sue dimensioni con le risorse che abbiamo a disposizione. Un’eredità senz’altro preziosa che possiamo lasciare ai nostri figli.

pedagogista

(sull'edizione cartacea di domenica 10 dicembre l'articolo è uscito con un nome sbagliato, Laura Fressoia invece di Luisa Fressoia. Ci scusiamo con l'autrice e con i lettori)