Fragilità. «Disforia di genere, la scelta rispettosa è quella esplorativa»

Esiste un fenomeno sociale e sanitario a cui in Italia non si presta la dovuta attenzione. Riguarda la sofferenza di bambini, ragazzi (e le loro famiglie), derivata da rifiuto del proprio sesso, turbamenti dovuti al sentirsi “intrappolati nel corpo sbagliato”, stato ascrivibile a incongruenza o disforia di genere. Il fenomeno è difficilmente quantificabile in Italia, a causa dell'inspiegabile assenza di dati di affluenza agli oltre 40 ambulatori (pubblici o privati in convenzione; dati desunti da siti non istituzionali) sparsi per la penisola. Nonostante le segnalazioni informali e allarmanti di genitori e insegnanti di scuole di ogni ordine e grado, questi casi sono stati finora intesi come da “risolvere in fretta”, con approcci che meglio dettaglieremo e che portano a una vera e propria transizione da maschio a femmina o viceversa. Il fatto che questo si pratichi in corpi molto giovani, pare non preoccupi o allarmi.
Per i casi di incongruenza o disforia, sono state messe in campo terapie di diverso orientamento. Quelle dette riparative, che cercavano di convincere forzatamente la persona, anche giovane, di non essere omosessuale o transgender, sono ormai largamente condannate. Le terapie “affermative”, invece, non ancora superate, hanno trovato consenso quasi unanime. Si basano sull’interpretare come attendibile ciò che un/a bambino/a o un adolescente afferma essere il suo “vero” sesso. La terapia affermativa, applicata dagli anni Novanta, non basata su certezze scientifiche ha dimostrato di non risolvere le difficoltà personali, anzi: si stanno moltiplicando i casi di “detransizione” – ragazzi ormai adulti che non si vivono più come transgender e che vorrebbero tornare indietro. Spesso in drammatiche condizioni di impossibilità. Si è forse perso di vista il principio di cautela ( primum non nocere) che dovrebbe essere alla base di tutte le pratiche medico-cliniche? L’approccio affermativo, oggetto di clamorosi recenti fatti di cronaca, è in corso di abbandono nella maggior parte dei Paesi europei e non solo, tranne che in Italia. Cerchiamo di capire perché. Esistono a livello internazionale due manuali diagnostici: il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, noto con la sigla Dsm (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’Associazione psichiatrica americana), e l’Icd ( International Classification of Diseases, Injuries and Causes of Death, classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità).
Dai testi si desume la strana situazione dell’incongruenza di genere (Idc) e della disforia di genere (Dsm), dichiarate di per sé come non vere e proprie patologie, necessitanti però di una diagnosi clinica effettuata da medico o psicologo. In assenza di segni visibili, il/la professionista clinico/a si basa su ciò che la persona riferisce di sé stessa. Quanto può essere “vera per sempre” l’autonarrazione di soggetto in età evolutiva (bambino o adolescente), periodo in cui le capacità cognitive, psicologiche, emotive e sociali, nonché di descrizione di sé stessi/e, sono tutt’altro che definite? Ecco perché sarebbe da tenere in debito conto non solo la plausibile mutevolez-za della descrizione, ma anche l’incerta permanenza dello stato riferito. Inoltre, dato non trascurabile, un bambino/a (o ragazzo/a) non ha ancora maturato la capacità di prevedere appieno le conseguenze di ciò che decide e fa.
Il dogmatico approccio affermativo alla disforia di genere ha un nome e un inizio. Siamo negli anni Novanta, la psicologa Peggy Cohen-Kettenis, fondatrice della Clinica pediatrica di Utrecht, sviluppa il “Protocollo olandese”, base di ogni terapia affermativa: per accompagnare i/le ragazzini/e con incongruenza di genere è opportuno assecondarli – “affermarli” – nella loro richiesta di una nuova identità, senza mettere in discussione le loro opinioni. Qualunque età abbiano, quasi sempre senza approfondire l’origine del disagio (in termini tecnici “diagnosi differenziale”) che, come ormai dimostrano diversi studi, può derivare da altre cause da considerare (disturbi dello spettro autistico, depressione, omosessualità fraintesa, sofferenze psicologiche di altra natura). Si passa quindi alle terapie farmacologiche (bloccanti della pubertà e ormoni cross-sex - fanno assumere i caratteri sessuali secondari del sesso opposto: per esempio barba, pomo d’Adamo e voce maschile nelle femmine) e chirurgiche.
Non ci sono riscontri oggettivi, ma il “Protocollo olandese”, trova immediata approvazione nei contesti scientifici internazionali. La stessa ideatrice, nel 2006 afferma in uno studio, che i bloccanti della pubertà sembrano fornire un contributo importante “nella gestione clinica del disturbo dell’identità di genere” e indica le età più adeguate per trarre il miglior profitto dai trattamenti: 12 anni per i bloccanti della pubertà e 16 anni per il trattamento cross-sex. Alla fine dello studio viene perfino espresso un ringraziamento alla casa farmaceutica che produce i bloccanti. Intanto la macchina del consenso si era messa in moto, con un’evoluzione che nei Paesi occidentali ha toccato il massimo della “propensione affermativa” tra il 2015 e il 2020, a cominciare dal Regno Unito, con migliaia di ragazzini (oltre 5.000 nel 2021) avviati al percorso di transizione presso la clinica Tavistock del servizio sanitario pubblico.
A quel punto parte un piccolo terremoto: fioccano le denunce di giovani trattati fin da piccoli con terapia ormonale e chirurgia, che all’avvio del percorso non avevano compreso le implicazioni a lungo termine di trattamenti così devastanti. La battaglia passa in tribunale e alla fine arriva il rapporto commissionato dal Servizio sanitario del Regno Unito, la citatissima Cass Review, che afferma che non esistono prove per valutare gli effetti dei trattamenti ormonali per quanto riguarda la salute mentale e psicosociale, lo sviluppo cognitivo, il rischio cardiometabolico, la fertilità. Un anno fa – il 29 marzo – la clinica Tavistock ha chiuso i battenti, avviando un serio ripensamento, presto diffuso anche in tanti altri Paesi : Finlandia, Svezia, Francia, Norvegia, Germania, Svizzera, Australia, Stati Uniti. Una piccola rivoluzione. Il caso francese , in particolare, è di grande interesse: l’Académie Nationale de Médicine, spiega il meccanismo con cui i casi di disforia si sono moltiplicati, parlando esplicitamente di “focolaio di casi” e avvallando, per la prima volta anche in campo medico, l’ipotesi del contagio sociale. Si tratta del resto di un meccanismo che la psicologia ben conosce per il dilagare dei disturbi alimentari, la dipendenza da internet, il fenomeno degli hikikomori, il cyberbullismo. È quindi plausibile e ormai dimostrato che riguarda anche l’incongruenza e la disforia di genere.
Cosa stanno elaborando in merito gli altri Paesi? In alternativa alla terapia “affermativa” e alla ricerca di un approccio il meno invasivo possibile, che lasci aperta una vasta gamma di risultati, si sta prefigurando una nuova via di accompagnamento e supporto per i giovani alle prese con incongruenza o disforia. Un approccio non ancora oggetto di interesse e formazione in Italia, definito “Terapia Esplorativa-Neutrale” o “Terapia Esplorativa del Genere”. Si basa sull’attenta indagine dell’esperienza personale della giovane persona in difficoltà e della sua famiglia, riguardo il vissuto di genere. Si esplicita nell’aiuto a far sì che sia il soggetto interessato che la famiglia si pongano nella condizione di “prendere tempo”, arrivando così a non assumere decisioni affrettate e senza darne per scontato l'epilogo.
Un approccio prudente. Il ragazzo o la ragazza in temporanea disforia, prendendo tempo, può arrivare ad identificarsi con il proprio sesso di nascita e accettare il proprio corpo così com’è, ma può anche decidere di procedere con la transizione di genere, nella comprensione delle complesse fonti del proprio disagio e delle conseguenze delle proprie decisioni e azioni. Insomma, tutti i risultati sono accettati e legittimi, a patto che non vengano bruciate le tappe e non si ricorra in modo sbrigativo ad interventi farmacologici e chirurgici, come pretenderebbe l’approccio affermativo. Un approdo di buon senso a cui stanno arrivando tanti Paesi occidentali. E noi, in Italia
psicologa, psicoterapeuta, docente sociologia di genere Università di Ferrara