Natalità. "Le coppie siano libere di avere i figli che desiderano"
Conta più l’aspetto culturale oppure quello economico nella “scelta” di avere figli? Può sembrare strano, ma questa domanda l’umanità ha incominciato a porsela in tempi recenti: nelle epoche, solo una parte di bambini è venuta al mondo come frutto di una reale e autentica “decisione” della coppia. È più o meno dagli anni Settanta del secolo scorso che la prospettiva dei figli ha incominciato a diventare quasi esclusivamente una questione di “scelta”. E uno spunto per ragionare di libertà, diritti, paure, speranza. Oltre che di soldi. La questione da porsi, semmai, è se siamo veramente liberi di scegliere, o se non vi siano invece condizionamenti esterni così forti da aver riportato all’esterno della coppia le decisioni sulla dimensione della famiglia.
Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con il padre del termine “inverno demografico”, il geografo, economista e demografo francese Gérard-François Dumont, professore alla Sorbona e direttore della rivista “Population et Avenir”. Nella visione di Dumont il crollo della natalità si manifesta non come il frutto di un destino ineluttabile, ma quale espressione della fatica di un Paese nell’attribuire il giusto valore al suo capitale umano. I sostegni pubblici, cioè, sono determinanti, e le scelte in tal senso sono espressione di una cultura che può essere a favore o meno di una società popolata da famiglie con figli. Dumont è intervenuto a un seminario organizzato dal Forum delle famiglie e dal suo presidente Gigi De Palo, nel quale partendo dall’esperienza del quoziente fiscale francese si è discusso dell’importanza di dotare anche l’Italia di un sistema di sostegni familiari ampi, diffusi e universali, a prescindere dalla loro formula.
Il demografo francese Gérard-Francois Dumont interviene al convegno sulle politiche familiari, con il presidente del Forum delle Famiglie, Gigi De Palo e il presidente della Fafce, Vincenzo Bassi - Cristian Gennari
Il declino va contrastato con una consapevolezza libera da (pre)giudizi, come ci ha spiegato Dumont: «Nelle società avanzate, per effetto della contraccezione moderna, la libertà di non avere bambini è diventata un’eventualità alla portata di tutti, una contro- accettazione dei figli. Ma se esiste la libertà di non avere bambini, dovrebbe esserci anche la libertà di avere bambini. È un fatto di giustizia. L’inverno demografico è anche la conseguenza di una mancata compensazione di questa dinamica». Il concetto è che anche se molti fattori storici e culturali hanno contribuito al calo dei tassi di fecondità nelle società sviluppate, le politiche familiari di un Paese sono espressione di come questo interpreta i principi di libertà e solidarietà. Dumont è molto chiaro: «La politica familiare deve accompagnare tutte le famiglie per dare loro la libertà di scegliere il numero di figli che desiderano. Il problema che abbiamo oggi in molti Paesi europei è la confusione tra la politica familiare e quella sociale. Mischiare i due ambiti significa condannarsi a non trovare soluzioni valide né in un caso né nell’altro».
È proprio questo l’equivoco che storicamente ha giustificato in Italia una politica familiare poco rilevante perché orientata più al (giusto) sostegno delle coppie in difficoltà che al (necessario) incoraggiamento a realizzare i desideri familiari. Una distorsione che resiste, e che trova una solida sponda in una certa matrice culturale. «Il ritorno delle ideologie mathusiane, che considerano ogni nascita di un bambino come una sventura per l’umanità, è un fatto serio – spiega Dumont – perché influenza di continuo decisioni che consistono nel ridimensionare le politiche familiari, o nell’impedire che si realizzino in pieno. Il malthusianesimo ha molteplici sfaccettature, c’è quello economico, delle risorse, ecologico, climatico, integrale… Ma alla fine il comune denominatore è sempre lo stesso: la riduzione delle nascite». Detto così è più facile comprendere le molte resistenze nei confronti delle politiche che vogliono attribuire ai figli l’importanza che si meritano, ad esempio attribuendo loro una sorta di «neutralità fiscale», come sostiene Dumont.
Un approccio anti-famiglia che non è più confinato solo nei Paesi del Sud Europa, tradizionalmente meno generosi in fatto di sostegni pubblici alle famiglie. Fino al 2019, stando ai dati Ocse, l’Italia spendeva solo l’1,4% del Pil in politiche di welfare familiare. Più del Portogallo (1,2%) e della Spagna (1,3%), ma meno della Grecia (1,8%), della Germania (2,4%) o della Francia (2,74%). I tassi di fecondità a livelli da estinzione sembrano una diretta conseguenza: Italia 1,24 figli per donna, Spagna 1,2, Portogallo 1,4, Germania 1,5, Francia 1,8. Che fare? «Nessuno mette in discussione che la politica economica, monetaria, energetica, estera abbiano delle conseguenze. Bizzarramente però alcuni pensano che la politica familiare sia neutra. Non è così! Alti e bassi delle politiche familiari coincidono quasi sempre con aumenti e cali dei tassi di fecondità. E se guardiamo all’Europa i Paesi con la spesa più alta, salvo rare eccezioni, hanno una natalità più vivace».
Un caso di scuola riportato da Dumont è quello del territorio della Saar, che ha avuto tassi di fecondità francesi finché, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, è rimasto sotto l’influenza e i sostegni di Parigi, ma quando nel 1957 è passato alla Germania in seguito a referendum popolare, ha visto calare le nascite a livelli tedeschi. Insomma, le buone politiche, come le cattive, funzionano. O anche: più spendi, meglio spendi. Ma se è così, quali caratteristiche devono avere gli interventi perché non si traducano in uno spreco di risorse pubbliche o, tutt’al più, rappresentino solo una forma di “redistribuzione” elettorale?
La lezione del professor Dumont è da mandare a memoria: «Una buona politica familiare deve essere “universale”, rivolta a tutti, e “transpolitica”, ovvero condivisa dai partiti in modo che non cambi a ogni governo. Poi “trasversale”, cioè agire su più fronti: quello della giustizia fiscale per chi cresce figli, in conformità con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, a livello sia di imposte nazionali sia locali; ma anche quello degli assegni familiari, della politica delle abitazioni, dei servizi per la conciliazione tra vita familiare e professionale. Poi “addizionale”: le famiglie con figli devono essere aiutate con interventi statali e pure sul territorio. Deve anche essere “perenne”: le coppie devono sapere che i sostegni sono sì generosi, ma anche che ci saranno sempre. Si potrebbe aggiungere che una politica natalista ha bisogno anche di essere “misurabile”, per ridurre concretamente il differenziale tra i figli che si desiderano e i figli che si hanno».
In Italia, come rilevano molte indagini, lo spread tra i bambini che si sognano e quelli che si hanno nella realtà è tra i più elevati in Europa. Per il Dumont-pensiero questa è la prova che una vera libertà di scelta su quanti figli avere, di fatto non c’è. È l’ideologia malthusiana ad aver radicato l’idea che troppi bambini, in fin dei conti, è meglio di no? O a incidere è pure un pensiero politico ed economico di corto respiro, persuaso che chi viene al mondo servirà al mercato solo vent’anni dopo?
«La popolazione mondiale non cresce per l’aumento delle nascite, ma per il calo dei tassi di mortalità – risponde Dumont –. La prospettiva malthusiana è radicalmente sbagliata. I bebè sono realmente un elemento “attivo” dell’economia e della società, perché ogni bambino che nasce stimola la popolazione a fare sforzi per accoglierlo. Dovremmo tutti capire che una società che non fa figli, in uno scenario di invecchiamento e devitalizzazione progressiva incontra difficoltà nel mercato lavoro, problemi sociali, economici, di trasmissione dei saperi tra le generazioni. L’Italia sta vivendo una fase di questo tipo. La cultura incide, ma buoni e significativi aiuti a tutte le famiglie fanno capire che uno Stato incoraggia e sostiene le coppie nella libertà di scegliere i figli che desiderano».